Dejan Stankovic, campione della Stella
Rossa, della Lazio, dell’Inter... ha lasciato il calcio oggi, con l’ultima
apparizione nella sua nazionale, la Serbia, che ha vinto 2 a 0 contro il
Giappone, in una gara amichevole.
C’è un pallone, che rimbalza fra sentimento e ricordo, fra amore e
scaramanzia, fra speranza e paura, fra gioia e dolore, costruito per fare la
spola dall’Italia alla Serbia e viceversa, chiuso in una valigia.
Il racconto che segue, per far capire chi è Dejan
Stankovic, è del 2008.
Il prossimo 5 febbraio saranno passati dieci anni, dal
trapianto, avvenuto nel 2004. Ma quest’anno, a ottobre, Marko non potrà venire
per il controllo annuale perché, dalla regione Lazio, ci hanno informati non ci
sono fondi per i controlli. Per lui come per tanti altri che, negli anni
passati, hanno avuto la fortuna di trovare le cure giuste in Italia. Lacrime di
Lampedusa…
Sarebbe facile fare un paragone con i fondi che sempre si
trovano per lavori come l’Alta Velocità (già si preparano le cariche dei
celerini per la manifestazione, poco istituzionale, del 19 ottobre), o per
l’acquisto degli F35, o per garantire gli stipendi a parlamentari e rispettivi
lacchè. Ma scado nel qualunquismo, scusatemi.
***
un
Pallone...
Non lo so, in questo momento, mentre ne scolpisco il ricordo, se
riuscirò mai a scriverne la storia completa, sua e dei protagonisti che gli
sono stati intorno, che non l’hanno mai colpito a pedate, quel pallone... E se,
questa cosa, al pallone avrà fatto piacere. So soltanto che è una storia che dovrà essere raccontata, prima o poi,
per non mandarla persa, insieme a mille altre, negli anfratti della memoria. Ma
intanto, c’è quel pallone...
Marko era in sala operatoria.
C’eravamo abbracciati, con la dottoressa Anna Locasciulli del San
Camillo di Roma. Era un abbraccio rassegnato, triste, solitario e finale,
quello che precede la sconfitta ineluttabile che sta per prendere il posto
della speranza che stava per realizzarsi. Era stato trovato un donatore di
midollo compatibile... speranza bloccata da un destino beffardo e cinico,
proprio all’arrivo della notizia.
Marko aveva avuto una emorragia cerebrale, per mancanza di piastrine.
Troppe erano state le trasfusioni, si cercava di fargliene, ormai, solo di
essenziali.
Troppo indebolito il suo organismo, quella mattina Novka mi telefonò,
in preda alla follia... Marko era crollato a terra, in strada, sembrava morto.
In quella sala operatoria avrebbero tentato l’impossibile, ormai si era
davanti all’epilogo, ma nessuno aveva il coraggio di pronunciarle, quelle
parole... “E’ finita...”.
No, non poteva essere finita e allora avanti col cercare quanti più
donatori di sangue e piastrine possibili, avanti con i turni in ospedale a
fianco alla mamma, saremo in tanti, sempre presenti.
In uno di quei momenti, drammatici e strazianti, arrivò una
telefonata... Era un amico di Marko, un calciatore serbo molto famoso che era
andato a trovarlo il giorno del suo compleanno, in ospedale, promettendogli che
gli avrebbe presto mandato anche un pallone. Marko aveva conosciuto Deki un
pomeriggio di sole, quando andammo a seguirne gli allenamenti e poi nello
spogliatoio, a fare foto, a ricevere magliette, a sorridere, felici...
Ma quella volta, sembravano proprio sbagliati tutti i tempi, come
dire... No, fermo, Deki, sei in fuorigioco!
Ma il regalo era ormai arrivato al San Camillo, Deki ci avvisava che un
suo amico stava lì, fuori dell’ospedale, col compito di consegnare quel regalo,
adesso così assurdo...
Non riuscì ad aggiungere altro.
Andammo, Novka e io, abbracciati verso l’uscita.
Marko era in sala operatoria e non si poteva davvero fare altro che
aspettare quelle parole... che nessuno aveva il coraggio di pronunciare. Ma
nemmeno si poteva stare a subire passivamente. Così, Novka pregava.
Ad alta voce, ma pregava. Non un dio o, forse anche quello... lei
pregava Marko, lo chiamava dal suo cuore, gli diceva di continuare a lottare.
Era una litania dolce e discreta, che spezzava il silenzio del dramma, litania
sacra, di mamma che non può accettare, dopo tanto lottare, che tutto vada a
perdersi così.
Arrivammo all’uscita dell’ospedale, fuori in strada. Giuseppe, l’amico
di Deki ci consegnò il regalo per Marko.
In quel momento, presi quel pallone fra le mani e lo guardai... C’era
una strana atmosfera, come se proprio in quel momento stesse per iniziare una
partita di calcio, fra la vita e la morte...
Un pallone, quel!, Pallone... regalo di vita, simbolo di gioia e gioco,
contro quella tragedia che stava per compiersi.
Tornammo in corsia, col Pallone fra le nostre mani.
Da quel momento, come per incanto, poco alla volta Marko si riprese.
Quel Pallone fu l’unica cosa ammessa dalla dottoressa sul comodino
durante il trapianto di midollo, che avvenne due mesi dopo. E continuò a
starci, ogni volta che Marko ebbe bisogno di tornare per le visite di
controllo. Chiuso in valigia, quella del bagaglio a mano, che non si sa mai...
il Pallone, quel! Pallone... ci fu sempre.
A ormai quattro anni dal trapianto, Marko, che quest’anno diverrà
maggiorenne, tornerà per i controlli.
Il 5 di Febbraio, festeggia un altro compleanno, Marko. Insieme a quel
Pallone...
“Inconsapevole del tempo ormai
prossimo alla fine, in pieno recupero, lanciato in contropiede, il calciatore
Serbo ha beffato con un delizioso pallonetto il portiere...”
Come fosse il destino di Marko messo davanti la porta della vita, a
bloccarla.
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