Stava bene, come sempre. Schiva, discreta, gentile e riservata, lo sguardo a seguire la figlia Dragana. Sono venute con Sonja e Milijana, mamma e figlia di altra storia. Anche Sonja ha perduto suo marito in Kosovo, prima della guerra, e un fratello, rimasto a proteggere la sua fuga, a mettersi in salvo con le due figlie piccole, è stato fatto sparire nel nulla. La sorte toccata a tanti serbi del Kosovo, nell’indifferenza generale. Ma questa è un’occasione speciale e ci abbracciamo, lasciando stare tutto per un attimo, per una sera. Sarà bello stare così, tutti insieme, per l’ultimo dell’anno.
C’era tanta gente, nella sala presa in affitto. Cento persone, fra ragazzi e adulti. Ogni volto, una storia. Come sempre succede, ma questa volta è successo un po’ di più. Ogni volto una storia. Sono ormai dieci anni, per qualcuno di loro anche di più… Il Kosovo, la guerra, la fuga, figli piccoli da crescere, e chissà come, e chissà dove, e chissà quando, ritorneremo. Mai più.
E i figli son cresciuti e altri ne sono arrivati. I più grandi, dopo il brindisi della mezzanotte, se ne vanno insieme a piedi a fare un giro in città. Ci sarà un concerto, dicono…
“Papà lo sa, non preoccuparti, verrà a prenderci in piazza!” -
“Va bene, allora… ciao, srećna nova godina! Felice anno nuovo!” - “Ciao! Srećna nova!”.
Aspettiamo le trombe, i trubaći, per archiviare il vecchio anno e dare il benvenuto al nuovo. Ma non si vede nessuno, forse l’orchestra è stata fermata dal freddo, dal gelo, o, forse, da più facili guadagni. E’ la notte giusta per guadagnare di più e se possono, non rischiano. Così niente trombe. Ma non ci perdiamo di animo. Il nostro Dj è pronto, si è riavuto dalla forte influenza proprio stamattina, dopo tre giorni di febbre alta. E’ Marko, col suo computer e la sua musica, a dettare i tempi della danza. Ranka, la mamma di Danjela e Ivana, ma anche di Tomi e Marija, balla il kolo e tiene le fila dove, a turno, si inseriscono gli altri. Avanti e indietro, destra sinistra, op-là! tre passi là, tre passi qua, oh, ma che è successo?… Niente, niente, è il Dj che ogni tanto interrompe i ritmi per soddisfare particolari richieste, subito si riparte. Eh, questo Dj Marko, distratto dalle ragazze! Ma del resto sono tante, sono belle, col trucco della serata speciale poi, sanno essere irresistibili. E lui lo sa, di stare in un posto strategico e così non si cura delle proteste dei ballerini e cambia musica, a richiesta. Non è artista della vita per niente, il nostro Dj! Serviamo a tavola piatti con salumi, formaggi, verdura, agnello, porchetta. E pane caldo. C’è tanta roba da mangiare, forse troppa. Io stappo bottiglie di vino rosso del Montenegro, ma non si beve molto, la polizia da queste parti è severa con chi guida dopo aver bevuto troppo. C’è da giurarci che ne aspetteranno molti, là fuori, gli agenti in servizio proprio in questo ultimo dell’anno. Un po’ per far rispettare la legge, un po’ per vendetta, dovuta alla frustrazione di doverci stare lì, nonostante i festeggiamenti… Ci sono tanti dolci preparati dalle famiglie ospiti, non manca il nostro panettone e lo spumante, tassativamente italiano. Tutte famiglie conosciute in questi dieci anni, alcune attraverso il sostegno a distanza, alcune tramite i figli ospitati in Italia d’estate, altre ancora neppure ricordo dove e come. Privilegiati fra i dimenticati. Ma un po’ di privilegio, ogni tanto, fa bene a tutti. Così, il giorno dopo, a casa Dubić, dove vive Sanja, con la mamma Svetlana e la sorella più piccola Tanja, proprio Dragomir Dubić, il papà di Sanja, esclama forte…
“Erano più di dieci anni che non andavo al ristorante! Quando ho detto ai vicini che sarei andato al “Sunce”, sono rimasti tutti a bocca aperta!”. Ci ridiamo sopra, allegramente. Siamo nella sua nuova casa, finalmente finita. Dopo dieci anni di ex stalla, ora finalmente una casa. I ragazzi giocano coi palloncini colorati della festa, qualche palloncino finisce sulla stufa accesa e scoppia. Sono i nostri botti di capodanno, fanno allegria lo stesso, insieme ai nostri ragazzi sorridenti e a quel nostro stare lì, semplicemente, in amicizia. Salute, Dragomir, živelj! Una bella rakija, adesso, ci sta proprio bene. Tanto, non c’è da guidare anche se, a pensarci bene, qualcuno dovrà farlo… io! Ma sono più di dieci anni che Dragomir non andava al ristorante. C’è proprio da riderci sopra, allegramente...
La casa di Saša
Io lo so, dove abita Saša Božanić.
Lo accompagno spesso a casa, quando vado a Kraljevo, in Serbia. A volte entro, altre aspetto fuori che qualcuno venga ad aprire. E’ una casa isolata ma non troppo distante dalle altre. Ogni volta che lo accompagno resto incantato da quel viale alberato che ti porta fin davanti al suo cancello di ingresso al giardino. Il giardino, molto curato, circonda tutta la casa. Pieno come è di aiuole e fiori, riflette i colori delle stagioni che si alternano. Ci sono delle alte siepi a formare un lungo e sempre vivo recinto. Quando è primavera, fra le siepi nascono delle rose selvatiche, dal colore rosso vivo. Il portico davanti al portone di casa guarda il sole e dal sole ripara d’estate, quando Saša intrattiene i suoi amici, magari per festeggiare qualcosa o qualcuno. Perché ha molti amici Saša e tutti, quando lo incontrano, lo salutano, anche da lontano…
“Doberdan, Saša! Kako si?” – “Buongiorno, Saša! Come stai?”…
Un grande salone ti accoglie, entrando in casa. Puoi sprofondare in uno dei grandi e comodi divani e prendere il caffè, guardando la televisione. Ce ne è una grande, così come c’è lo stereo per la musica e tutto ciò che può servire in un grande e accogliente salone. Anche la cucina è grande e con la sua potente stufa riscalda tutta casa, sempre pronta a sfornare cibi caldi per gli ospiti che sempre arrivano. Pita, svadbarski kupus, sarma, carne affumicata, formaggi vari e kaimak, per chi è più tenero di gusti. E rakija a volontà, che Todor, il papà di Saša, è sempre pronto ad offrire per brindare insieme a te. Ci sono due bagni abbastanza grandi, uno con la doccia e uno con la vasca, e quattro grandi stanze da letto, una per Saša, una per i suoi genitori, una per la sorella Jèlena e una per Slađana, la sorella più grande. Ora una stanza è vuota perché Slađana è andata ad abitare da un’altra parte insieme alla piccola Anđela, piccola e splendida Anđela, nipote di Saša. Ma quando tornano a trovarli, la stanza è sempre lì che le aspetta, pronta, come non fossero mai andate via. C’è anche una mansarda che, per ora, è usata come soffitta…
“Un giorno la sistemerò e quando verrai a trovarmi con la tua famiglia sarà la tua casa!”, mi dice Saša. Io ci credo….
Milojka e Todor, i genitori di Saša, sono anziani ma ancora forti e gagliardi e fanno sempre molte cose insieme a lui, dai lavori nel grande orto che sta dietro casa a quelli di manutenzione degli interni o del giardino. Fra non molto, dice Saša che prenderà moglie. Forse è ancora presto, ma le ragazze non gli mancheranno, a lui vogliono sempre molto bene. Perché Saša è un tipo gentile e delicato, e queste cose le ragazze le apprezzano. Dice Saša che quando prenderà moglie darà una gran festa e sarò il suo ospite d’onore. Io ci credo…
Io lo so, dove abita Saša Božanić.
La guerra lo ha reso profugo, con tutta la sua numerosa famiglia. Viene dal Kosovo, Saša, costretto a scappare dalla sua terra, dalla sua casa, dalla sua vita a soli cinque anni, perché i signori della guerra, i terroristi albanesi dell'Uck ma pure quelli della Nato quindi, pure quelli italiani, non ne volevano sapere di lui e della sua gente. E li avrebbero ammazzati o fatti ammazzare tutti, compreso Saša. Qualcuno, fra i suoi cari, è stato sequestrato e fatto sparire, che forse è anche peggio. Lazar, giovane marito della sorella di Saša, Slađana e papà della piccola Anđela, è stato fatto sparire nell’ottobre del 1998 con altri 14 uomini del suo villaggio, nei pressi di Orahovac. Cinque mesi prima dei bombardamenti iniziati in quel 24 marzo 1999, quando si andava preparando la guerra nei minimi dettagli, dettagli fatti di propaganda, da distribuire a piene mani nei nostri telegiornali e nei vuoti salotti della politica ammaestrata e addomesticata, e di menzogne, che nascondevano queste sparizioni, queste violenze, queste uccisioni che erano da tempo condotte in modo indiscriminato contro i serbi del Kosovo e Metohija.
Sono passati dieci anni, ormai.
A volte capita di parlare con Saša di quello che è la guerra, ma lui spesso fa una smorfia e scuote le spalle, quasi a volersi scrollare di dosso storie di ingiustizia e brutti discorsi.
Io lo accompagno spesso a casa, quando vado a Kraljevo. Solo che… solo che... non nella casa che ho descritto. Perché non abita lì, Saša. No, vi ho mentito.
Io lo so dove sta la sua casa, ma non vi dirò niente a riguardo. Perché ogni volta che lo vado a trovare io ne vedo un’altra, di casa, bella come ve l’ho descritta, e so che un giorno Saša ci andrà a stare davvero, con tutta la sua vita, certo molto migliore di quella che ho inventato e raccontato. E quando saluterà con quel suo solito, triste abbraccio finale, perché sarà arrivato il momento di lasciarci, i suoi occhi non si veleranno più di rassegnata malinconia.
Io ci credo…
Primo dell'anno...
E’ il primo dell’anno, tutti dormono un po’ di più.
C’è freddo e gelo, il caldo in casa è come una bella donna che ti vuole accanto. Ma i motori non vanno, il gelo li blocca, l’acqua nei radiatori ghiaccia e spacca, tubi e valvole. A Zmajevac, pochi chilometri da Kraljevo, un uomo smonta motori di trattori nel freddo della sua officina. A mani nude, con le maniche della tuta tirate su, svita bulloni, allenta supporti, ascolta pistoni, svuota serbatoi. E’ il primo dell’anno, ma lui è lì. Lo aspetta, il nuovo anno, così. Lo accoglie, il nuovo anno, così. Lo scorda, il vecchio anno, sempre così. Aggiusta una mia idiozia, acqua normale nel radiatore al posto dell’antigelo. Come se Zmajevac fosse località di mare, ai Tropici. Non mi deride, aggiusta in silenzio e parla coi suoi simili. E quando gli dicono che ne ho aiutato qualcuno, fra quei suoi simili, alla fine del lavoro non vuole niente. Provo a dargli mille dinari ma non li accetta…
“Tu hai aiutato tanti di noi, posso fare qualcosa anche io per te!”, mi dice. E’ il primo dell’anno e quest’uomo, nel gelo di Zmajevac, ha lavorato gratis, per me. Aggiustando, in silenzio, con rispetto ed educazione, una mia idiozia.
Ritorni
Giusto il tempo di una frontiera, fra scarichi di auto male assortite in file disordinate.
Emigranti al ritorno, Svizzera, Austria, Italia, Germania o Francia. Stanno bene, questi emigranti, le loro auto sono migliori della mia. Ore e ore in fila, per un controllo che non ci sarà, per frontiere inutili e assurde, ormai, fino all’esausto rientro. E di nuovo, la realtà cambia sotto i tuoi occhi e non puoi farci niente. Cambiamenti fatti di bombe, altre bombe, morti, altri morti, infamie, altre infamie. Nessuno sembra preoccuparsene. Tutto va avanti allo stesso modo, stessi orari, stessi cartellini da timbrare, stesse parole. Ogni mattina, ogni giorno, tutto allo stesso modo. Qualche immagine alla televisione ti dice che altrove si sta formando gente come quella che hai conosciuto in questi anni, profughi di guerra, ognuno coi propri morti ammazzati, le proprie grida di dolore, nell’ingiustizia planetaria. Nemmeno noi ci siamo preoccupati, nel nostro capodanno passato insieme, noi e le vittime di altre bombe, di altre guerre, di altre infamie. Neppure una notizia è giunta fra noi, dalla Palestina. E se è arrivata, nessuno ha voluto parlarne. Le vittime sembrano non conoscersi fra loro. Chiuse ognuna nella propria realtà, ignorano le altrui disgrazie. Ma, forse, non si può correre dietro a tutte le infamie del mondo. Basta quella subita, a indurirci il cuore.
E’ freddo, in questo angolo di strada, all’incrocio di un semaforo, in questo angolo di mondo. Espongo per bene, distendendole su di un cartone sopra la terra, le mie scarpette di lana colorata finite ieri, davanti a una tiepida stufa di una fredda cucina. Lana usata e riusata, filata e sfilata chissà quante volte. Ma sono venute bene e la lana, anche se usata, è ancora forte. Così, provo a venderle lo stesso, in questo angolo di mondo, in questi incroci di ferri da lana e di strade. Arriva uno straniero, forse le compra, lo riconosco, lo ha fatto altre volte. Duecento dìnari son pochi per lui e per tanti al mondo. Non per me. Ma con lui, stavolta c’è una di noi, una di questo angolo di mondo, di questi incroci di strade. Riconosce la lana, riconosce il lavoro, gli fa cenno che no, non deve comprarle. Se ne vanno, comprano altre scarpette da altre donne. Sono migliori, lo so, ma io ho solo queste… Così, me ne resto qui, al freddo di questo angolo di strada, all’incrocio di un semaforo, in questo angolo di mondo. Senza quei duecento dìnari e senza neppure i centocinquanta, prezzo ribassato ma rifiutato, qualche euro appena. Dovrò provare a vendere queste scarpette di lana a meno, oppure aspettare. Domani sarò qui ancora, con le stesse cose, lo stesso cartone, la stessa terra, gli stessi incroci, lo stesso freddo. Speriamo lo straniero ripassi. Ma da solo. Chè la mia gente, mi è diventata nemica.
Šumarice
(Kragujevac, Ottobre 1941...)
Silenzio,
neve e solitudine della memoria,
a Šumarice. E freddo…
Freddo e gelo,
sui volti scolpiti nella pietra,
esposti al vento,
che li accarezza,
raccogliendone il soffio leggero,
di voce lontana.
Che lo stesso vento
Che lo stesso vento
trasforma in grido,
straziante,
straziante,
di eterno dolore.
Saluti
E’ sera.
Domattina presto dobbiamo partire.
Accompagno Ceca a casa, Maddalena la saluta.
Piange già da un quarto d’ora, solo all’idea di doverlo fare.
E’ un saluto silenzioso, fra figli e figli.
Un arrivederci che lascia lacrime sul viso.
Succede, quando dentro ti resta il vuoto.
Ma quando ti resta il vuoto, solo allora…
è davvero Amore.
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