mercoledì 22 luglio 2009

La vita che verrà.

Un gatto nero s’avvicina al tavolo dove stiamo mangiando.
Occhi di pantera, gli intingo molliche nell’olio della carne arrostita e gliele tiro lontano, ché non si fida e non s’avvicina troppo. Mangia affamato. Di nascosto, gli tiro anche un pezzo di carne, che qui è cosa troppo preziosa da dare a un gatto. Siamo a Osojane, piccolo villaggio non molto lontano da Pec, in Kosovo, dove vivono poche famiglie serbe che ancora resistono nel Kosovo albanese. Sreten, del vicino villaggio di Kos, racconta di come le cose, nel bene e nel male, vadano avanti da dieci anni. Il Kosovo “indipendente” è solo uno dei tanti schiaffi alla loro voglia di resistenza. Ma ci vuole altro per mandarli via, per arrenderli.
Lui e i suoi amici in questa piccola kafana ci guardano diffidenti. Come potrebbe essere altrimenti? Chi siamo noi, che arriviamo qui in questo afoso pomeriggio di luglio a parlare con loro, a chiedere cose, a scattare foto? Tanti lo hanno fatto, tanti hanno fatto domande, scritto risposte, scattato foto, filmato video, ma nessuno è mai ritornato.
Io mi presento, presento la mia associazione, racconto quel poco o tanto che abbiamo fatto e la voglia di conoscerli per raccontare ancora. Sreten vive con poche altre famiglie nel suo villaggio, ma intorno ce ne sono circa duecento. La scuola è ben tenuta, ne vanno orgogliosi. E ti dicono che hanno bisogno di tutto e di niente. Hanno bisogno di tutto perché la loro vita è tutta lì, in quella stanca e malmessa kafana, in un campo da coltivare, in una lezione da tenere, in un ambulatorio da mandare avanti fra mille stenti, nelle serate passate nella piazza del villaggio, dove i ragazzini possono giocare. Ma hanno bisogno di niente perché sono dieci anni che vanno avanti così e non sanno che farsene della solidarietà. Termino la conversazione con un “Speriamo di vederci presto” che sa di circostanza, anche se non è così nella mia mente. Solo il tempo saprà dire se questa speranza sarà stata reale.
Viviamo in una prigione a cielo aperto” è la traduzione delle ultime parole di Sreten che fa Beba, nostra piccola, splendida, occasionale interprete che si ritrova a parlare di cose più grandi di lei. Dodici anni, Beba è qui con la mamma Jordanka che ha approfittato del nostro invito per tornare in Kosovo dopo dieci anni dalla fuga. Lei viveva a Osojane e da sei mesi abitava nella nuova casa costruita col marito Lazar, dove aveva portato le sue cinque figlie. Ora, Lazar è morto, così come Sanja, la figlia più grande annegata nel fiume Morava, a Kraljevo. Desiderava rivedere questi posti, Jordanka, ma la visita al cimitero dove sono sepolti la madre e un nipote diciassettenne ammazzato da terroristi albanesi è stata straziante per lei, già al mattino. Ma qui, a poche centinaia di metri c’è la sua casa, vuole rivederla, non si può dirle di no. E’ già tardi, dobbiamo percorrere il viaggio di ritorno, ci vorranno altre cinque ore, ma convinciamo l’autista e ci fermiamo ancora per dieci minuti. Lei ci mostra gli ettari di terra della sua famiglia e una casa costruita dopo, senza permesso, su quella che era stata la sua terra. La strada che portava alla sua casa è stata cancellata dal bosco che ha invaso e seppellito tutto. Allora, aggiriamo il piccolo colle e passiamo da dietro, in mezzo al bosco, passando fra terre che erano di suoi parenti. Da lontano, si intravedono altre case distrutte e razziate, facilmente riconoscibili... le case dei serbi.
Le forze non l’abbandonano quando, fra i rovi e gli alberi, si comincia a scorgere la sua casa. Man mano che ci avviciniamo, però, il suo cammino diviene stanco, rassegnato, preda di ricordi strazianti. Come il suo pianto quando entra in quella che era la cucina, passando fra rovi e arbusti. Non ci sono mura, tutte rubate, mattone dopo mattone. Restano in piedi solo i pilastri, i solai e la scala, ormai tutto staticamente precario. Fra le macerie, una piccola scarpa di bambina, forse appartenuta a Suncica o, forse, a Beba. Piange, Jordanka, come pure Beba, costretta a scoprire, fra lo spettacolo delle sue radici violate e umiliate, la memoria di se.
Vado al piano superiore, mi giro e rigiro in quella desolazione, cercando di coglierne il senso per restituirne qualcosa a chi non sa o finge di non sapere, con la mia videocamera. Ma arriva Jordanka, che subito mi mostra un legno mezzo marcito...
Alessandro, la culla di Beba!”, mi dice scoppiando in lacrime.

Jordanka rovista ancora freneticamente, cercando non si sa cosa, fra mattoni che infami sciacalli hanno spezzato per rubarne altri, insieme alle tubazioni, ai fili elettrici, al legno del tetto, alle tegole, alle piastrelle del pavimento, ai sanitari e a tutto quello che era dentro la sua vita. Ritrova due biberon, Jordanka ed è di nuovo pianto. Beba la segue come un’ombra nei suoi movimenti, quasi sapesse ogni gesto, ogni parola, ogni sua lacrima, come fosse donna adulta. E forse davvero lo è, prima del tempo, niente a che fare con le odierne e tutte nostrane pupe da premier e lacchè.
Scendiamo le scale, Jordanka cerca ancora. “Attenti, qui può crollare tutto!”, ma niente crolla, solo Jordanka potrebbe farlo, da un momento all’altro, sangue che ribolle ed esplode negli occhi, invasi da rabbia e dolore, tristezza e piaga dei ricordi.
I rovi e gli arbusti di rose hanno invaso il piano terra. Mi viene da prenderne dei rami, Jordanka mi ha insegnato un modo per riprodurle, per talea, lasciando sette occhi, togliendo le sette foglie, incidendo alla base il rametto e inserendo dei chicchi di grano. Il tutto va lasciato cinque giorni nell’acqua e poi interrato. Ne prende anche lei, mossa dal mio stesso pensiero. Le dico che uno dovrà essere mio. E così, in un fazzoletto di carta, le dono quella spiga di grano colta nel vicino campo a Osojane, il suo villaggio.
Torniamo al pulmino dove ci aspettano Rade, l’autista e Miso, che ci ha accompagnato, riattraversando la macchia, che ha cancellato strade, sentieri, percorsi di memorie.
Beba porta fra le braccia degli stracci, vecchi vestitini di bambina e quel legno spezzato, sbriciolato, marcito ma tanto prezioso, della sua vecchia culla.
Mi offro di aiutarla ma dice di no e mi accorgo che piange, delicata. Mi dice che è triste per tutto quello che ha visto, ma pure che ringrazia per averla portata lì con la mamma.
Sono triste ma pure felice, perché adesso ho visto...”.
Si, Beba, un albero deve conoscere dove stanno le proprie radici per capire dove andare. E tu, ora, le hai conosciute. Sono qui nel Kosovo, a Osojane, piccolo villaggio vicino Pec. E con la tua culla fra le braccia, puoi adesso tornare alla tua vita. La vita che verrà.

giovedì 2 luglio 2009

Samo Sloga Srbine Spasava

Samo Sloga Srbine Spasava”, “Solo l’unione salverà i Serbi”.
Da sempre i Serbi si ritrovano sotto questo motto, ma mai come oggi questo motto è in pericolo. In Kosovo, gli ultimi resistenti accusano i loro fratelli di averli abbandonati e di avere, soprattutto, abbandonato la terra dei loro padri, il Kosovo e Metohja.
Che importa chi è che comanda oggi in Kosovo? Siamo passati per secoli di dominazione turca, ci hanno invaso i nazisti, ci hanno ammazzato e siamo pronti a morire ancora, ma non ci siamo mai piegati agli invasori... L’unica cosa che conta è che i Serbi restino qui!”.
Ma quelli che se ne sono andati hanno le loro ragioni, e se la prendono con la stato che non li ha protetti...
Si, siamo stai aiutati all’inizio, ma senza lavoro, coi figli da crescere, tutto è difficile. Abbiamo perduto tutto, come possiamo non vendere quel poco che ancora abbiamo in Kosovo? Gli albanesi vengono con tanti soldi e non possiamo rifiutare le loro offerte... alla fine, ci cacceranno anche in maniera legale da quella che era la nostra terra”.
Poi, ci sono i giovani, quelli di Belgrado, quelli che ascoltano Radio B92... quelli che hanno voglia di dimenticare le sofferenze, che non ne vogliono più sapere di Kosovo, di guerra, di passato, tradizione, profughi o resistenti, religione o dinastie Nemanja.
Si arrabbia, madama Dobrila, nel patriarcato di Pec, vecchia, dolce ma ferma signora che sembra una monaca ma monaca non è, e che ci spiega ogni affresco, ogni simbolo, ogni anfratto del patriarcato, quando pensa a quel che è successo...
Ci hanno distrutto la cultura e il perché non lo sa nessuno! Noi convivevamo anche con loro, gli albanesi, ognuno con la sua cultura e religione. Che bisogno c’era della guerra? A cosa è servita? A distruggere tutto e basta! Dopo la seconda guerra mondiale avevamo una popolazione analfabeta, le donne giravano con il velo. Poi, tutti hanno potuto studiare, conoscere, imparare e ora tutto di nuovo si perde. E’ la barbarie che vince”.
Tutto tranquillo, invece, per i militari del Villaggio Italia, che sovrasta Belo Polje, dove una certa propaganda governativa proprio non attacca...
Andare via dal Kosovo per l’Afghanistan? Non se ne parla, noi prendiamo ordini solo dai vertici Nato. Potremo diminuire le forze impiegate, cosa che già è avvenuta, ma non abbandonare le minoranze della zona”.
Villaggio Italia, quindi, non smobilita. Troppo importante il ruolo da deterrente che permette ai pochi serbi delle enclavi (parola che a molti serbi resistenti non piace!) di pensare ancora a un futuro. E troppo grande la stima guadagnata sul campo, sia per la protezione garantita dopo il progrom antiserbo del marzo 2004, sia per la sensibilità dimostrata nel recupero di icone e simboli dalle chiese bruciate dagli albanesi filo Uck. A madama Dobrila, che parla un perfetto italiano con delicato accento francese, si illumina il volto quando pensa al lavoro svolto dai militari nella salvaguardia di queste opere preziose...
Niente a che vedere coi militari degli altri paesi! Siamo qui, protetti da voi italiani, come in una gabbia. Ma almeno una mano l'avete data e continuate a darla!”.
Contraddizione emblematica dei tempi che corrono!
Abbiamo fatto una guerra contro la Jugoslavia, in particolare contro i serbi, a fianco di impresentabili terroristi travestiti da liberatori e ora, gli stessi militari sono qui a proteggere dalla barbarie gente comune che ha la sola colpa di non volersene andare dalla propria terra. Una mano non sa cosa fa l’altra, e il caos regna sovrano.
Intanto, mi giunge la notizia di una cara amica che è morta. Allora, a suo ricordo, faccio come i serbi e verso un po’ di rakija a terra pronunciando il suo nome. Poi, accendo un cero nel pianale più basso di questa chiesa bruciata e mezzo distrutta, quello per i morti, verso i quali il rispetto va aldilà del semplice simbolismo.
E quanto dolore può provocare il vicino cimitero distrutto, con le pietre divelte e spaccate, lo può sapere solo chi, quel rispetto, continua a portarlo avanti con tutta la propria forza. Forza che viene da memoria, cultura e amore per le proprie radici. Quelle che, in Kosovo, stanno cercando di recidere ai serbi.