mercoledì 24 dicembre 2008

Tempo di auguri...

Tempo di auguri, tempo di buoni propositi, tempo di letterine.
La letterina che vi invio, arriva da Kraljevo, in Serbia, dove con molte famiglie di sfollati e profughi della guerra "umanitaria" del 1999, alla quale attivamente partecipammo come paese Italia, passeremo il capodanno.
Ci saranno cibo e bevande, allegria e musica, le trombe e le grancasse di una orchestra Rom e lo spumante (italiano...). Mancherà qualche mamma, che manderà solo i propri figli, che hanno diritto a festeggiare.
Si, qualche mamma mancherà, perchè da quel solo apparentemente lontano 1999 non ha più il suo uomo accanto. Rapito, fatto sparire, ammazzato e sepolto in una fossa comune, di quelle che non sono state "scoperte" dalle missioni internazionali firmate Nato-Usa. L'Italia avrebbe poi partecipato alla guerra, in difesa degli assassini di quell'uomo, uno fra tanti.
Mancherà anche qualcuno che, in questi anni, si è ammalato, chissà, forse a causa dell'uranio impoverito, chi potrà mai dirlo? Certo, non le commissioni istituite dal nostro paese, che hanno detto che tutto è a posto, quasi che nulla sia successo.
E invece, qualcuno di quegli ammalati, tanti, troppi, sempre di più, mancherà alla festa. Ma andremo avanti lo stesso e comunque, per non dimenticare e non far dimenticare. Proprio come insegna la musica di quelle orchestre per matrimoni e funerali. Vita e morte, gioia e dolore, sorrisi e lacrime.
Tempo di auguri, tempo di buoni propositi, tempo di letterine. Ma anche di memoria, da tenere sempre sveglia. Auguri a tutti voi.

mercoledì 17 dicembre 2008

My name is Luka...

My name is Luka... cantava anni fa Suzanne Vega, in una vecchia canzone.
Sono all’aeroporto, arrivi internazionali, con un cartello in mano, dove c’è scritto proprio “Luka”. Quando uscirà mi vedrà, ne sono certo.
Passa un po’ di tempo ma, alla fine, eccolo lì. Lo vedo, lo riconosco, non può essere che lui, anche se lui del cartello proprio non si accorge. Gli vado incontro...
Sdravo, Luka, dobro dosli!”, ciao Luka, benvenuto e lui mi sorride con i suoi occhi vispi e luminosi. Anche se... Anche se Luka è qui per farsi operare proprio a un occhio, il sinistro. Neuroblastoma, è la diagnosi che non lascia scampo.
Ma Luka di queste cose ne sa davvero poco. Ha tre anni, Luka e la sua giovane mamma, Jelena, lo stringe a se mentre li accompagno a Siena, all’ospedale pediatrico dove esiste un reparto specializzato per la cura e gli interventi all’occhio per quel tipo di male.
Nello specchietto retrovisore passano tante immagini, come icone religiose, un’unica religione... la madre col bambino.
Sono icone dissacrate dalla malattia e dalla guerra che le provoca, guerra che ha distrutto e contaminato il suolo della Jugoslavia, tutta.
Jelena e Luka vengono da Kragujevac, la Torino della Jugoslavia, la chiamavano... 100 km a sud di Belgrado, in Serbia, dove, dopo i bombardamenti del 1999, i medici consigliavano le donne a non fare figli per almeno tre anni. Consiglio che non è stato sufficiente e che si è rivelato inutile perché, anche facendoli dopo, questi figli si ammalano. E sono tanti, troppi, sempre di più.
A Siena vengono ben accolti. C’è un uomo che funge da interprete, viene dal Kosovo, è un goranci, etnia di discendenza turca. E’ buono e disponibile, si vede. Dice che parla e capisce tutte le lingue della ex Jugoslavia, che è dovuto fuggire anche lui, che il Kosovo è ridotto a terra di conquista per invasori stranieri e per il malaffare. E che, fra serbi e albanesi, loro, i goranci, stanno nel mezzo. E non è un bello stare...
Ma i goranci, ora, si trovano anche in Serbia!” gli dico. E lui dice che si, questo è vero e non hanno problemi a starci mentre, in Kosovo, è divenuta impossibile qualsiasi forma di convivenza.
Una cosa, però, resta a unire tutti, come una sorta di cappio al collo... la malattia.
Tutti, ormai, hanno in famiglia qualcuno che in questi anni si è ammalato di tumore o di malattie del sangue. Come in un gioco perfido del destino tutti, albanesi o serbi, goranci o rom, accomunati dallo stesso problema... le malattie insorte dopo l’inquinamento dovuto alle bombe!
Ma Luka, intanto, gioca nel mini parco del reparto pediatrico e non sembra preoccuparsi molto di quello che gli sta intorno e che gli deve apparire nuovo e insolito. La mamma, meno inconsapevole, se lo guarda premurosa.
Mi insegnano che l’occhio malato si riconosce dalla luce più intensa che sembra emanare. L’occhio più luminoso, quello, verrà asportato. Estirpato, perché quella luce, così intensa e luminosa, inganna. E uccide.
Un po’ come la luce dei bombardamenti. Inganna. E uccide. Ma quella, di luce, nessuno riesce mai ad asportarla, né ad estirparla.
Entrano nel reparto degenze, indossano le cuffie e le protezioni per scarpe e vestiti. Si sistemeranno. La degenza sarà lunga. Ma la storia la conosco...
Abbraccio Jelena, le faccio gli auguri “Puno Srece, Jèlena!”, “Hvala!” mi risponde.
E saluto Luka, che mi batte il cinque. Che i tuoi occhi possano continuare a sorridere, piccolo Luka. Tutti e due, insieme a Te.
Me ne torno a casa con la mia vecchia auto, sussurrandomi a mente “My name is Luka...”. Domani avrò le prove per le progressioni verticali. Stasera, forse, studierò.

venerdì 12 dicembre 2008

Jelena

Jelena se ne stava in disparte. Discreta, come chi non vuole disturbare.
Eravamo in quella scuola alberghiera per la formazione di tanti ragazzi, la più grande e rinomata, così ci disse il suo direttore, del sud della Serbia.
Le avevo dato appuntamento lì per consegnarle la rata del sostegno a distanza perché lei alloggiava proprio a cinque minuti da quella scuola, a Vrnjacka Banja, rinomato centro termale.
Stavamo passando velocemente col direttore che faceva strada, proprio come un vero manager sa fare. Ma le andai incontro ugualmente per salutarla, lasciando il piccolo gruppetto alla sua corsa. Jelena mi sorrise, e mi disse di non preoccuparmi, che avrebbe aspettato che avessimo finito il nostro giro.
Quando, finalmente, terminammo la visita alla scuola, Jelena ricevette la sua quota del sostegno a distanza. Ci invitò a casa per un caffè, ma andavamo di fretta...
"La prossima volta, Jelena, che ora andiamo di corsa!".
Ci disse che Dragana, la sua unica figlia che avevamo ospitato in Italia l'estate passata, era a scuola e che il computer che le avevamo regalato la volta scorsa lo usava sempre, spesso con le sue amiche, e che si divertivano molto.
Dragana era una ragazzina davvero amabile. Adesso, però, era preoccupata di mantenere la linea, non voleva diventare troppo "rotonda". E così, stava attenta al mangiare...
"Però, a capodanno, la dieta la lasceremo stare tutti! Abbiamo organizzato una festa, tanto per stare tutti insieme e passare una bella serata in amicizia, in attesa del nuovo anno. Verrete? Ci farebbe davvero tanto piacere, avervi fra noi..."
Ma sul volto di Jelena scese, improvviso, un velo di tristezza e di malinconia.
"Dragana verrà, se possibile, e verrà se anche la sua amica, Milijana, verrà. Ma io, io... no. Quando ci sono le feste, io preferisco stare a casa. Grazie, grazie lo stesso".
Aveva perso il marito, Jelena, nel '98. Nel Kosovo, dal quale poi fuggì con la sua Dragana.
Ucciso, come tanti altri Serbi. Fatto sparire, nel nulla, cancellato da tutto, meno che dal suo cuore. Il suo nome era Pera Adzancic.
La successiva guerra del '99, sarebbe stata fatta a difesa dei suoi assassini. Erano passati 10 anni, ormai. Ma Jelena era ancora innamorata di quell'uomo, del suo ricordo. Ci salutammo.
L'avremmo pure accompagnata con la nostra macchina, ma lei preferì tornarsene a piedi, nonostante la neve, nella piccola stanza di quell'ex albergo per operai delle manutenzioni elettriche, messo a disposizione per gli sfollati di guerra.
Sola, con il suo velo di malinconia a ripararle il viso. Dal freddo, insopportabile, della solitudine.

giovedì 11 dicembre 2008

Quiz... solidali! Prove generali di sinistra...

IL 10 dicembre scorso, all'università di Tor Vergata, dalle 9 di mattina si sono svolte le prove scritte per le progressioni verticali dalla categoria C alla categoria D, per tutto il personale non docente che ne aveva fatto motivata richiesta.
Circa 400 persone hanno affollato un'aula della facoltà di Economia, come si fosse trattato di un incontro sulla situazione economica del paese o del mondo intero. Insomma, una platea importante...
E invece, come direbbe il ministro Brunetta, era una platea di fannulloni incalliti.
Che, accattoni!, stavano lì solo per giocarsi la possibilità di poter incrementare il proprio salario, la propria carriera, la propria pensione... e si perché così, un domani, uno se ne va in pensione con una categoria economica superiore!
C'erano tutti, tanti si sono rivisti lì dopo anni, altri si erano proprio dati appuntamento.
"Mi raccomando, stiamo vicini, che così ci diamo una mano!"
Tra chi pensava di essere una colonna dell'università, tra chi colonna ci si è ritrovato suo malgrado, tra chi non ci pensa nemmeno a essere colonna, sono state consegnate le buste con le prove da eseguire. 30 quiz ai quali rispondere in 30 minuti.
Quiz su "Chi firma mandati di pagamento nei dipartimenti?", oppure su "A chi spetta l'iscrizione a un master di I livello?" oppure su "Chi approva il bilancio preventivo di Ateneo?"... tutti hanno avuto le loro risposte. Molte sbagliate, molte giuste.
Il mio 24/30 è stato deludente, lo confesso. Ma avevo studiato davvero poco, mentre c'era gente che aveva studiato tanto e che il suo 30/30 se lo è portato, giustamente, a casa. Ma la cosa più straordinaria è avvenuta alla fine.
Chi aveva finito il compito, non se ne andava, nonostante gli inviti della commissione... e circondava chi non aveva ancora finito il suo, di compito. Si, rimaneva attorno a chi non aveva ancora imbustato tutti i fogli con le risposte e i propri dati con le buste etichettate. No, stavano ancora tutti lì e davano consigli, aiuti, risposte. Magari non tutte giuste, anzi!... qualcuna proprio sbagliata ma, insomma!, erano consigli sinceri, venivano dal cuore, verso chi stava andando nel panico. Era solidarietà.
Perchè a un collega, in quel momento tuo simile, non puoi rifiutarti di dare una mano e non importa se, poi, prenderà più di te. No, devi!, aiutarlo. E così, capiterà che il tuo aiuto farà avanzare quel tuo collega proprio di un punto avanti a te. Ma che importa? E' così che deve essere, alla faccia di chi sporca queste persone, tutti noi, con l'insulto. Gratuito, insolente, avvilente.
Perchè c'è una solidarietà così forte in questo paese e nel mondo in generale... una solidarietà che, purtroppo, si esprime solo nei casi di estrema necessità... una solidarietà che accomuna quasi tutti... non tutti, certo, ma quasi!, tutti... quasi... una voglia di sentirsi parte di un unico grande gruppo, di una grande forza, inconsapevole ma maggioritaria, apparentemente divisa ma, invece, eccezionalmente unita, che meriterebbe ben altri rappresentanti, ben altri scenari, ben altri risultati.
E che meriterebbe pure che quel "quasi" fosse per sempre, una volta per tutte, cancellato.

mercoledì 3 dicembre 2008

Notizie da Kraljevo...

Cagnolini... al forno
C’è un cane che tutte le mattine viene chiuso dentro un forno.
No, tranquilli, il forno è spento! Sta fuori, in un angolo del portico di ingresso di casa. La nuova, casa, dove la famiglia Ribac, finalmente, è andata a vivere dopo quasi un decennio di soggiorno in un centro collettivo per profughi e sfollati.
Si tratta di un cucciolo di cane, un trovatello. Jelena Ribac, tutte le mattine, lo chiude nel forno prima di andare a scuola. Perché lui, il cagnolino, le è talmente affezionato che le correrebbe dietro fino a scuola. E non si può.
Così, Jelena dice alla nonna, Radmila, di tenerlo chiuso fin quando lei non scompare all’orizzonte. Poi, la nonna potrà riaprire, lasciando il cagnolino in quella insolita cuccia, ad aspettare. Di vederla tornare, per poterle di nuovo correre incontro, felice.
A Kraljevo, ci sono una ragazzina e un cagnolino, felici di essersi conosciuti.

Scacco al quadro
Stavolta l’arrocco è stato efficace.
Muovo le torri tutte verso quel punto preciso. Il re avversario è davvero in difficoltà. Ecco, quella mossa è l’unica che gli rimaneva. Muovo ancora l’alfiere, la torre tiene in scacco il re... ma ecco! Scacco matto! Ho vinto!
Mi alzo e corro nella stanza, gioisco come uno scemo, ma è stata una gran vittoria, la seconda consecutiva a casa Vukovic!
Ho battuto Beba al gioco degli scacchi, dopo aver sconfitto anche Suncica. Sono contento di avervi battute, perché vostra madre, perfida, voleva vedermi sconfitto anche stavolta. Vi dava consigli e muoveva per voi, all’inizio, ma poi aveva altro da fare e così vi ho battute. L’altra volta Jordanka, la mamma, mi aveva ridicolizzato, vincendomi facilmente.
Sono contento. E felice, perché... non si piange più, a casa Vukovic!
Adesso si gioca, si ride, si scherza, ci si prende in giro. Anche se quel quadro, il quadro con quella bambina e le sue lacrime, sta ancora là, appeso.
La prossima volta, me lo voglio giocare a scacchi.
E se vinco, giuro che me lo porto via. Staccato, per sempre, da quella parete.

Furgoni
In questo ristorante dove ci hanno invitati dopo l’incontro col sindaco, ci sono troppe giacche e cravatte, intorno a me.
Troppi personaggi di rampanti memorie, visti e rivisti, salite e tonfi, noie mortali, stesse ambizioni, stessi polsini, stesse agende, stessa supponenza.
Ti offrono ciò che vuoi, tanto non pagano loro. Parole al vento, si inseguono incontro al nulla. Poi, finalmente, l’ora in cui te ne puoi andare. Ed esci.
E proprio fuori, all’uscita, ritrovi il senso del tuo stare lì.
Un furgone parcheggiato... quel!, furgone, guidato per ore e ore, non passavano mai, per migliaia di chilometri, quando tutto era ancora appena accaduto, la Jugoslavia c’era ancora e tutto aveva ancora il sapore della rabbia e dell’ingiustizia, al posto dell’attuale rassegnazione.
Un furgone, ancora in vita per chissà quali scopi, che ormai tutto s’è trasformato. Anche la scritta di lato, che sembra non ricordarci più. Ma lui no, lui, il furgone, sicuro che ricorda ancora. Sta lì, ti guarda, ti fa l'occhiolino. E’ un abbraccio a distanza, discreto, complice, furtivo, fra chi se la intende.
Ciao furgone. Ci incontreremo ancora, da qualche parte, che il viaggio da fare è ancora molto, molto lungo.

Ci salverà il soldato che non la vorrà...?
C’è la neve nel parco di Kraljevo, quello che raggiungi attraversando la ferrovia, prima del campo Rom.
Forse, c’era pure quel giorno di Ottobre del 1941, quando i nazisti sterminarono più di seimila persone, uomini, donne, bambini e anziani.
Blocchi di pietra come tronchi di albero recisi, a ricordo di quelle feroci rappresaglie e di quelle vite spezzate.
Formano recinti come a dire... “Noi ci facciamo ancora compagnia, col calore dei nostri corpi che solo in apparenza si sono raffreddati. Non saremo mai soli, finché gli sguardi dei passanti sapranno ancora fermarsi per noi...”.
Ci sono anche blocchi di pietra che riportano, scolpite, date successive al 1941. Sono gli scampati, i miracolati sopravvissuti fra le cataste macellate dell’invasore. Li hanno commemorati anche loro, se lo meritavano.
Ma, di lato, un po’ in disparte, c’è un altro tronco reciso in pietra. Riporta scolpita la stessa data. Sta lì a memoria di un soldato che si rifiutò di eseguire l’ordine. Fu ammazzato, come traditore.
Forse, avrebbe meritato di starci pure lui, in quei recinti. O, forse, meriterebbe che altri seguissero il suo esempio. E che si formassero recinti nuovi, ma di alberi veri e vivi, piantati da chi obietta, rifiuta, disprezza. La guerra e i suoi ordini da eseguire.
C’è la neve, nel parco di Kraljevo. Forse, come quel giorno di Ottobre del 1941. Ma il calore che sento crescere dentro, quello, questa neve non saprà mai freddarlo. E ce ne sarà sempre, finché lo sguardo del passante saprà ancora fermarsi qui.

Spiriti santi
Quanta neve che ancora resiste, nel parco di Kraljevo.
Il freddo pungente la preserva dal sole, trasformandola in ghiaccio.
Più in là, grida e vociare di bambini che giocano nel fango e in mezzo a neve ormai sporca. Qualcuno ne fa palle, ma è ghiaccio e fa male quando colpisce. Perciò, qualcuno pure piange.
Sono i bambini del campo Rom. Sembrano non curarsi del freddo, ma le loro mani sanno di ghiaccio. E il mocciolo del naso gela.
Non suonano le trombe, questi Rom Serbi. Non hanno fra le mani grancasse e tromboni. Armeggiano fra vecchie auto e ferraglie arrugginite, cartone e rifiuti vari. La neve, quando cade, fa sembrare tutto bello e incantato. Ma dura poco. Qualcuno riconosce il nostro accento, molti di loro sono passati per l’Italia e allora ci salutano e dicono.. “Amico! Guarda...” mostrandoci la desolazione intorno. Un ragazzo mi fa.. “Eh! Come stai?” – “Bene, grazie! E tu?” – Bene! Ciao...”. Ciao, che noi proseguiamo. Andiamo a far visita a una famiglia che non è Rom ma vive lo stesso qui, in una specie di casupola fatiscente, quattro bambini, due caprette, una nonna, un padre e una madre . Manca lo spirito santo... Ci arrangiamo con la rakija, che ci viene offerta insieme al caffè e alla bibita, in grande amicizia e ospitalità, perché li abbiamo degnati della nostra visita. Saremo noi, invece, con l’idea e l’immagine del mondo che ci portiamo appiccicata addosso, abbastanza degni di questa rakija?