mercoledì 27 novembre 2013

“Qui, mi sento una straniera…”


Giovedì 14 novembre

Questo è il racconto di viaggio per conto di Un Ponte per... di questo novembre, in Serbia. E in Kosovo. E in Metohija...

Partenza alle 18 circa del pomeriggio. Viaggio in compagnia di Alberto, un amico che torna in Serbia per la seconda volta, con la passione per la fotografia e con tanta voglia di raccontare cose attraverso la macchina da presa… e Miloš Šarković, ragazzo che sta frequentando  in Italia il corso di laurea in Fisioterapia presso l’università di Roma “Tor Vergata”, grazie alle agevolazioni volute dal precedente rettore, prof. Alessandro Finazzi Agrò, a seguito dell’iniziativa “C’è un bambino che…” (ospitalità di ragazzini profughi o in difficili condizioni di vita provenienti dalla Serbia del dopo bombardamento Nato) per un decennio patrocinata dall’ateneo stesso. Non c’è freddo, si viaggia bene anche se a rilento causa pioggia e camion incontrati. Di notte è sempre così. Ma ho programmato incontri per domani mattina e non si poteva fare diversamente.

Serbia, sosta lungo l'autostrada (foto di Alberto Urbinati)


Venerdì 15 novembre

Si arriva a Belgrado intorno alle ore 12, troppo tardi per gli incontri programmati con l’ex ambasciatrice in Italia, sig.ra Sanda Rašković Ivić, attualmente deputata al Parlamento Serbo nel Partito Democratico guidato dall’ex presidente Vojislav Koštunica. Per telefono ci si accorda per il 20 prossimo. Gli incontri sono necessari per stabilire contatti con la rappresentanza della Serbia presso l’Unesco e con il gruppo Mnemosyne, che si occupa della memoria storica e artistica della Serbia e, in particolare, del Kosovo e Metohija.

Si arriva a Kraljevo in serata, molto stanchi e, dopo aver fatto sosta presso “la Libreria”, una kafana di Kragujevac, ci si sistema in hotel (non senza aver fatto visita alla famiglia di Marko Milanović, ragazzo già ricoverato in Italia dal novembre 2002, operato nel dicembre 2003, trapiantato con midollo osseo da donatore non consanguineo nel febbraio del 2004 e tornato a vivere in Serbia dal marzo 2005).


Sabato 16 novembre

Partenza per il Kosovo e Metohija in tarda mattinata. Con noi viene Beba Vuković, ex ragazzina più volte ospitata in Italia. Di lei, della sua famiglia, della sua storia ho raccontato nei miei libri e anche nel documentario “L’urlo del Kosovo” dove, insieme alla mamma, ritrova le sue radici in una struggente, quanto straziante visita alla sua casa distrutta. Arriviamo a Vidanje, villaggio presso Klina (Kline in albanese), in serata. Sostiamo presso la famiglia di Miloš e, a sera, facciamo una breve passeggiata a Klina, attenti a parlare solo italiano (qui il serbo è meglio usarlo sottovoce…). In giro pochi negozi aperti, poca gente e sono appena le sei di pomeriggio. Molte banche, fra le più potenti al mondo. E poi i monumenti del nuovo Kosovo: il municipio, realizzato a immagine e somiglianza, in proporzioni ridotte, della casa Bianca statunitense… la statua a madre Teresa di Calcutta… l’immancabile monumento all’Uck e all’eroe di turno (questo è dedicato a Adem Jashari)… una moschea.

Beba mi sussurra che si sente una straniera in questo posto e che se pensa a tutti quelli che dicono che “il Kosovo è Serbia!”, diventa triste perché si rende conto che non è vero… “Sono triste, anche se non mi ricordo tanto di quando vivevamo qui, ero piccola a quel tempo… ma se fossi fuggita all’età di adesso, 16 anni e fossi tornata, nel vedere tutto questo soffrirei davvero tanto.”.


Domenica 17 novembre

Si arriva al monastero di Dečani intorno alle 10, dove ci attende padre Isaja. Siamo d’accordo nel visitare insieme le famiglie beneficiarie del progetto “H2O, acqua per Zvezdan”, scavo di pozzi artesiani per famiglie serbe residenti nei villaggi del Kosovo e Metohija che Un Ponte per... ha realizzato in collaborazione con i monaci del monastero di Dečani. Ne sono stati realizzati 21, oltre a un altro, gratis.
Velika Hoča, a casa di Nataša Putnik (foto di Alberto Urbinati)

L’idea è nata durante una mia visita con padre Petar alle famiglie sostenute a distanza, nel giugno 2011. Vedere l’idea realizzata restituisce energia per iniziative future. Questa è solidarietà vera, non elemosina. Queste famiglie hanno bisogno di tutto, ma avere l’acqua in casa è solidarietà che si trasforma in dignità per chi è dimenticato, per chi è ghettizzato, per chi si vorrebbe cancellato, dalla memoria e dalla terra. Questo sono i Serbi in Kosovo e Metohija, oggi. E noi siamo con loro, viviamo le loro difficoltà cercando di renderle meno pesanti. Se un giorno vinceranno la loro guerra contro la damnatio memoriae, un piccolo contributo lo avremo dato anche noi. Una damnatio memoriae che si fa beffe di storia, di cultura, di persone, di bambini, schiava della propaganda che si è scatenata nel riscrivere le vicende di questi luoghi a immagine e somiglianza della attuale classe dirigente albanese kosovara, invischiata nella melma malavitosa, ma che non riesce ancora a vincere sulla realtà dei fatti. A Orahovac (Rahovec in albanese), città nel centro della Metohija, la maggioranza albanese parla ancora serbo (ci si scherza su, dicendo che lo si parli meglio dei serbi…). Ma Hashim Thaci, attuale premier kosovaro già a capo dell’esercito terrorista dell’Uck, ha recentemente invitato (eufemismo…), i suoi concittadini a smetterla con l’uso di quella lingua e ad usare l’albanese. La cosa da fastidio alla propaganda, evidentemente, che vuole queste terre da sempre abitate dai soli albanesi e che considera i serbi come usurpatori. Mentre culturalmente ci si ritrova nell’invasore turco-ottomano (anche Erdogan in una visita recente ha rivendicato il Kosovo come turco!!!), si nega la precedente cultura del regno di Serbia. Bizzarrie normali da queste parti…


Velika Hoča, a casa di Nataša Mičić

Velika Hoča, il pozzo a casa di Nataša Mičić (foto di Alberto Urbinati)

Andiamo a Velika Hoča, località famosa per la produzione del vino dove c’è anche la vineria del monastero di Dečani. Qui sono stati realizzati undici pozzi, alcuni dei quali servono più famiglie. Ne visitiamo sette, oltre a due che fotografiamo da lontano, sulla via del ritorno. Ad alcuni lasciamo le targhe con le dediche volute dai donatori. Purtroppo non è stato possibile applicarle alle pareti del pozzo, nonostante tutta l’attrezzatura portata al seguito dall’Italia, in quanto gli stessi dovranno essere rivestiti con pietra o in mattoni. Ma lasciamo stop per il fissaggio, scattiamo foto e spieghiamo il perché delle targhe, ricevendo assicurazione che le stesse verranno applicate non appena terminato il lavoro.
Velika Hoča, acqua a casa di Stajko Spašić
(foto di Alberto Urbinati)

L’atmosfera è sempre molto cordiale e ci ringraziano molto, i pozzi sono essenziali e molti hanno già installata la pompa che permette di portare l’acqua in casa. Isaja ci dice che sono rimasti circa trecento euri (290 per l’esattezza) che ci accordiamo verranno usati per saldare un conto con degli operai, mentre faremo uno sforzo in più (810 euro) per garantire le ultime tre pompe per gli ultimi pozzi realizzati.
Velika Hoča, il pozzo a casa di Zoran Manitašević
(foto di Alberto Urbinati)

Terminato il giro a Velika Hoča, siamo ospiti della giovane famiglia di Mladen Lukić, che ci ha accompagnato nel giro. Mladen vive a Velika Hoča con la moglie Jelena, 23 anni, le figlie Radmila, 4 anni e Teodora, 2 anni. Ci sono anche i genitori Jasminka, 45 anni e Miroslav, 49. Il pozzo realizzato è profondo 24 metri, ma ce ne sono di meno profondi. Qui la zona è collinosa e a volte è stato necessario scavare di più. Nella casa dei vicini, la signora Nataša Putnik vive con la figlia Aleksandra, 18 anni, con l’anziana mamma Mitra e i figli Daliborka, 22 anni e Dobrosav, 25. Il pozzo è di 22 metri. Fanno effetto le sue parole: “Abbiamo vissuto dodici anni senza l’acqua in casa!”. Suo marito, 47 anni, è stato ucciso da estremisti assassini a Zrze, vicino Orahovac, qualche anno fa.

Rientriamo al monastero dove ci attende la quiete consueta. Ci riposiamo, mangiamo e concludiamo la serata con una bella conversazione con padre Petar e padre Nifont, entrambi molto a conoscenza delle nostre attività. Domenica al monastero ci sarà la Slava del santo fondatore, Stefano di Dečani (Stefan Dečanski). Sono attese centinaia di persone, ci sarà anche il patriarca Irinej. Verrà anche inaugurato il Konak, la nuova ala del monastero dove alloggeranno i monaci. Si tratta di una nuova costruzione che lascerà molto più spazio agli ospiti futuri. Scherzano Petar e Nifont, temendo che da monaci si trasformeranno in cuochi e camerieri! Ci invitano a restare per la Slava, ma non possiamo.
Goraždevac, pozzo a casa di Mijomir Jovović, con dedica
(foto di Alberto Urbinati)


Lunedì 18 novembre

Di mattina presto andiamo con Isaja a Goraždevac, villaggio serbo vicino Peć (Peja in albanese), che non è mai stato completamente abbandonato, protetto nel giugno del ‘99 e, soprattutto, nel marzo del 2004, dalla Kfor italiana (acronimo di Kosovo Force, forza militare della Nato presente in Kosovo dalla fine dei bombardamenti Nato), dove sono stati scavati altri 4 pozzi, oltre a uno realizzato gratuitamente dalla ditta. Anche qui solito giro, ogni famiglia un caso unico, ogni famiglia profondamente grata della realizzazione.  Ci salutiamo con Isaja, noi proseguiamo per il villaggio di Osojane, distretto di Klina, dove ci attende Sonja Vuković, già accompagnatrice varie volte di gruppi di minori in Italia. Quest’anno è stata a Marina di Pisa con un gruppo di 15 ragazzi. C’è pure Nenad, anche lui in Italia a settembre, anche lui docente nella scuola “Rados Tošić”, di Osojane. Insieme visitiamo il monastero di Budisavci, piccolo gioiello d’arte e architettura lasciato a se stesso, con a guardia un poliziotto albanese che parla un po’ di italiano. L’accento tradisce la sua permanenza in Toscana. Nel monastero, della stessa epoca di quello di Dečani (prima metà del XIV secolo), voluto dalla sorella di Stefan Dečanski ma realizzato in tono minore, vivono tre vecchie suore e un custode serbo, che ci apre volentieri la chiesa che visitiamo.

monastero di Budisavci - affresco


monastero di Budisavci - l'esterno
Andiamo a mangiare in un ristorante albanese, a Zlokučane, parte cattolica, vicino la nuova e maestosa chiesa appena costruita vicino la sede della Caritas. Qui i serbi sembrano ben tollerati. Visitiamo Suvo Grlo dove incontriamo Tanja e Jovana, in Italia a Pisa a settembre, che ci fanno dono di rakija e ajvar (sorta di patè di peperoni in barattolo che quasi tutte le famiglie realizzano per l’inverno).


Mi chiedo sempre come facciano a vivere tanti ragazzi e ragazze in queste condizioni, così isolati, così segregati, in case certo non comode come quelle alle quali siamo abituati… ma poi guardo i loro occhi, i loro sorrisi e ottengo risposta. La vita, a volte, è molto più semplice di come la immaginiamo.

Saliamo, al buio dell’inverno che avanza, a Banja dove, in un piccolo e fumoso locale, incontriamo gente del posto. Prendiamo una cosa da bere e conosco la storia della campana della chiesa di Studenica di Hvosno, che viene datata al tempo dei Nemanijć (primo medioevo). La campana, il cui suono la leggenda vuole si sentisse in tutta la Metohija, dopo vicissitudini varie è ora a Parigi, in un museo.


Indicazioni stradali bilingue...


Novo Brdo, la città antica


Ci salutiamo con Nenad e Sonja. Noi proseguiamo per Novo Brdo (Novoberde in albanese), dove sorgeva il più antico centro minerario d’Europa. Durante il primo regno di Serbia, nel primo medioevo, esperti minatori provenienti dalla Sassonia furono impiegati nell’estrazione dei metalli della miniera. Oggi, vi si ricordano i Sassoni, gli Illiri, i Dardani, i Turchi, gli Albanesi… i Serbi, no!

Ma eccoci al monastero di Draganac, dal nostro caro amico padre Ilarion. C’è molta gente, alla funzione della sera nella chiesa del monastero. E’ una cosa insolita, il lavoro di Ilarion da i suoi frutti. Ma anche quello degli altri monaci, Predrag, Justine, l'anziano Kiril. Quando mi vede, Ilarion lascia la funzione per venire ad abbracciarmi e a darmi il benvenuto. Lo farà anche Justine. La cosa mi fa un enorme piacere…


Martedì 19 novembre

a casa di Nada


Bostane, la chiesa di sveta Bogorodica

Alberto rimane con Ilarion, io e Beba facciamo ritorno a Kraljevo. Passiamo per Bostane (in albanese Bostan), dove salutiamo Nada Ferković, già in Italia lo scorso anno e in Grecia la scorsa estate, anche grazie al contributo di Un Ponte per… Visitiamo la chiesa di Sveta Bogorodica (il padre, Emir, è il parroco della chiesa e vive qui con la sua famiglia) e proseguiamo per Gračanica (Gracanice in albanese), dove facciamo tappa, obbligata, per una visita a uno dei maggiori esempi dell’architettura medioevale serba del trecento. Beba è emozionata... per lei è una visita davvero speciale e tanto desiderata!
monastero di Gračanica - esterno

 
monastero di Gračanica - affresco


Dopo circa tre ore siamo a Kraljevo. Lascio la macchina al “Club du France” per porre rimedio a un rumore preoccupante che ci ha accompagnato per tutto il viaggio. Stavolta sono stato fortunato, non sono rimasto a piedi solo per un caso, mi dice Dejan, il boss dell’autofficina…


Mercoledì 20 novembre

Prendo il pullman per Belgrado la mattina alle 8, mentre alle sette faccio visita alla Croce Rossa, dove lascio un pacco per una famiglia sostenuta a distanza e scambio qualche impressione sulle nostre attività.

A Belgrado, in Kneza Miloša, al MAE, mi incontro con Jasna Zrnović, responsabile serba per l’Unesco. Parliamo della tutela di beni culturali, del difficile rapporto con molti paesi, della complicata situazione che vive il Kosovo.

Vado poi in Parlamento, soffermandomi davanti agli edifici bombardati del Ministero della Difesa e dell’Esercito Federale, costruiti nel 1963 su progetto di Nikola Dobrovič, da molti considerato il più importante architetto moderno serbo. Gli edifici sono rimasti così da quel 7 maggio del 1999, quando la Nato li distrusse con le sue bombe intelligenti e umanitarie. C’è chi li considera i monumenti alla retorica del nazionalismo serbo, chi ne fa il simbolo della persecuzione antiserba e c’è chi li definisce “memoria involontaria” di un popolo in quanto, volenti o nolenti, sono lì e le persone li collocano in un loro spazio storico e simbolico che non può essere cancellato.



Belgrado, Kneza Miloša


 
Belgrado, Kneza Miloša


Io li colloco semplicemente nel centro storico di una fra le più importanti capitali europee che, pochi anni fa, fu bombardata in modo criminale da una coalizione di stati che, contro il parere dell’Onu, contro la propria Costituzione (Italiana in primis), contro la Costituzione della stessa Nato, si è resa responsabile di una ingiustizia per la quale nessuno pagherà, se non il popolo che quelle bombe le ha subite. Questa non è “propaganda nazionalista serba”, questo non è “vittimismo serbo”, questa è la realtà storica dei fatti. E i tanti militari impegnati in quell’aggressione, entrati poi, come Kfor, nel Kosovo e nella Metohija da invasori, insieme alle tante Ong che, come avvoltoi, si avventavano sulla preda dei fondi che sarebbero da li a poco stati distribuiti per la “ricostruzione e la riconciliazione”… questi militari, in particolare quelli italiani che, oggi, si stracciano le vesti per la devastazione e la distruzione di una Cultura che, finalmente e bontà loro, scoprono molto vicina alla nostra, avrebbero dovuto, prima di dar vita alle tante e apprezzabili gare di “generosa elemosina e protezione”, battersi davvero il petto in quei monasteri che oggi frequentano da “Amici”, fare grande mea culpa e gridare l’enorme ingiustizia della quale si sono resi complici. Così, per correttezza storica, direi…



Belgrado, il Parlamento


Incontro Sanda Rašković, che mi parla di come non si sarebbe mai aspettata che il Kosovo fosse lasciato a se stesso e in questo modo. Amareggiata dalle recenti scelte del governo serbo, a suo parere più preoccupato di entrare in Unione Europea che di salvaguardare la propria Storia, la propria Cultura, la propria Identità e, aggiungo io, il proprio Popolo, pensa che sarà facile per il governo di Priština cambiare le regole. Oggi, dopo gli accordi fra Serbia e "Republika e Kosoves" e dopo le recenti elezioni alle quali i serbi del Kosovo e Metohija sono stati invitati a partecipare in modo pressante da Belgrado, è prevista la concessione di autonomia ai serbi dei villaggi in quanto maggioritari. Ma basterà "allargare i distretti" e gli stessi serbi diverranno minoritari, costretti quindi a sottostare alla Giustizia kosovara, alla polizia kosovara, alle leggi kosovare. Un po’ come col problema del diritto all’uso del cirillico a Vukovar, città dell'ex Slavonia a maggioranza serba, oggi solo Croazia, con i serbi ammazzati ed espulsi in massa nel ’95. Aumentando la percentuale minima necessaria per ottenere tale diritto riconosciuto, si è passati alla negazione… ma a norma di legge!
Sanda mi accompagna in strada fino all’Etnografski Muzej, dove mi ha fissato un appuntamento con la d.ssa Mirjana Menković del museo di Priština (Prishtine in albanese), a Belgrado. La Menković, è anche una delle fondatrici, insieme al dott. Branko Jokić che assiste all'incontro, dell’associazione Mnemosyne.

La Menković tarda un pochino, ma quando arriva è molto cordiale e interessata alle idee proposte per uno studio sui monasteri del Kosovo e Metohija. Mi parla del lavoro svolto in questi anni, in particolare prima del pogrom antiserbo del marzo del 2004 (il decennale ricorrerà a breve), segnalandomi e donandomi molto materiale sull’argomento. Siamo d’accordo di restare in contatto per il futuro.

In tarda serata mi ricongiungo con Alberto che, nel frattempo, è arrivato a Belgrado da Gnjilane, passando per Niš. E' soddisfatto della giornata passata con Ilarion, nella scuola elementare dove insegna religione ai bambini dei villaggi di Novo Brdo. Potrebbe essere questa l'idea che cercava, per un racconto fotografico di una realtà nascosta e dimenticata.
Torniamo a Kraljevo in pullman e ci prepariamo per il rientro che, però, non avverrà domattina presto, come preventivato. Siamo stanchi, meglio fare le cose con calma.
 


Giovedì 21 novembre

Ci svegliamo con comodo. Viaggeremo di notte, la pioggia ci accompagnerà da Trieste fino a Bologna, arriveremo domani mattina. Il freddo ci correrà dietro ma non ci raggiungerà, se non dopo il nostro arrivo.
Oggi è Arandjelovdan, il giorno dell’Arcangelo Michele. Dopo aver ritirato la mia auto dal meccanico partecipiamo, brevemente, alla Slava della fondatrice della Croce Rossa serba nella sede di Cara Lazara. Qui ci riuniamo anche con Miloš, arrivato ieri da Vidanje con i genitori. Le sue valigie, molto pesanti, sono cariche di famiglia e di luogo natio. Verrebbe voglia di disfarle e svuotarle di tutto il ben di Dio che c’è dentro.

Forse, ci troveremmo anche tanto del nostro passato, un passato non così lontano, quando a cercare futuro erano i nostri padri. Miloš le disferà con i suoi nuovi amici, quelli della sua avventura italiana che ne attendono, curiosi, il rientro.

Lui non ha aria da emigrante, con le valigie tenute dallo spago, le scarpe rotte e così via. Lui viene da un posto fiero e carico di dignità. Vidanje, poche case di serbi nei pressi di Klina. Dove, adesso, vanno raccontando che tutto lì, era albanese e che, dall’albanese, tutto deriva. Le città, i nomi dei luoghi, le chiese, i monasteri, i fiumi, i laghi, le montagne. Forse, pure lo stesso Miloš

domenica 13 ottobre 2013

Ci salverà un soldato?

Domani, 14 ottobre, ricorre l'anniversario della strage che i criminali nazisti commisero a Kraljevo, Serbia, nel 1941. Circa seimila persone trucidate. A ricordare il martirio, i "tronchi spezzati" dello Spomen park, il parco della Memoria, dietro la ferrovia. Priebke laggiù non sanno chi è, Priebke è cosa nostra. Ma, di sicuro, non ce lo vorrebbero, fra quei tronchi...

Ci salverà un Soldato?

C’è la neve nel parco di Kraljevo.
E’ il parco che raggiungi attraversando la ferrovia, prima del campo Rom. Forse, la neve c’era pure quel giorno di Ottobre del 1941, quando i nazisti sterminarono più di seimila persone, compresi donne, bambini e anziani.
Blocchi di pietra come tronchi di albero recisi, a ricordo di quelle feroci rappresaglie e di quelle vite spezzate.
Formano recinti come a dire...
“Noi ci facciamo ancora compagnia, col calore dei nostri corpi che solo in apparenza si sono raffreddati. Non saremo mai soli, finché gli sguardi dei passanti sapranno ancora fermarsi per noi...”.
Ci sono anche blocchi di pietra che riportano, scolpite, date successive al 1941. Sono gli scampati, i miracolati sopravvissuti fra le cataste macellate dell’invasore. Li hanno commemorati anche loro, se lo meritavano.
Ma, di lato, un po’ in disparte, c’è un altro tronco reciso in pietra.
Riporta scolpita la stessa data. Sta lì a memoria di un soldato che si rifiutò di eseguire l’ordine della belva nazista. Non ammazzò, ma fu ammazzato, perché considerato traditore.
Forse, avrebbe meritato di starci pure lui, in quei recinti. O, forse, meriterebbe che altri seguissero il suo esempio. E che si formassero recinti nuovi, ma di alberi veri e vivi, piantati da chi obietta, rifiuta, disprezza. La guerra e i suoi ordini, infami e folli, da eseguire.
C’è la neve, nel parco di Kraljevo.
Forse, come quel giorno di Ottobre del 1941. Ma il calore che sento crescere dentro, quello, questa neve non saprà mai freddarlo. E ce ne sarà sempre, finché lo sguardo del passante saprà ancora fermarsi qui.

venerdì 11 ottobre 2013

Puno srece, Deki! (buona fortuna, Deki!)

Dejan Stankovic, campione della Stella Rossa, della Lazio, dell’Inter... ha lasciato il calcio oggi, con l’ultima apparizione nella sua nazionale, la Serbia, che ha vinto 2 a 0 contro il Giappone, in una gara amichevole.

Il racconto che segue, per far capire chi è Dejan Stankovic,  è del 2008.

Il prossimo 5 febbraio saranno passati dieci anni, dal trapianto, avvenuto nel 2004. Ma quest’anno, a ottobre, Marko non potrà venire per il controllo annuale perché, dalla regione Lazio, ci hanno informati non ci sono fondi per i controlli. Per lui come per tanti altri che, negli anni passati, hanno avuto la fortuna di trovare le cure giuste in Italia. Lacrime di Lampedusa…

Sarebbe facile fare un paragone con i fondi che sempre si trovano per lavori come l’Alta Velocità (già si preparano le cariche dei celerini per la manifestazione, poco istituzionale, del 19 ottobre), o per l’acquisto degli F35, o per garantire gli stipendi a parlamentari e rispettivi lacchè. Ma scado nel qualunquismo, scusatemi.
 ***
un Pallone...


 C’è un pallone, che rimbalza fra sentimento e ricordo, fra amore e scaramanzia, fra speranza e paura, fra gioia e dolore, costruito per fare la spola dall’Italia alla Serbia e viceversa, chiuso in una valigia.
Non lo so, in questo momento, mentre ne scolpisco il ricordo, se riuscirò mai a scriverne la storia completa, sua e dei protagonisti che gli sono stati intorno, che non l’hanno mai colpito a pedate, quel pallone... E se, questa cosa, al pallone avrà fatto piacere. So soltanto che è una storia che dovrà essere raccontata, prima o poi, per non mandarla persa, insieme a mille altre, negli anfratti della memoria. Ma intanto, c’è quel pallone...
Marko era in sala operatoria.
C’eravamo abbracciati, con la dottoressa Anna Locasciulli del San Camillo di Roma. Era un abbraccio rassegnato, triste, solitario e finale, quello che precede la sconfitta ineluttabile che sta per prendere il posto della speranza che stava per realizzarsi. Era stato trovato un donatore di midollo compatibile... speranza bloccata da un destino beffardo e cinico, proprio all’arrivo della notizia.
Marko aveva avuto una emorragia cerebrale, per mancanza di piastrine. Troppe erano state le trasfusioni, si cercava di fargliene, ormai, solo di essenziali.
Troppo indebolito il suo organismo, quella mattina Novka mi telefonò, in preda alla follia... Marko era crollato a terra, in strada, sembrava morto.
In quella sala operatoria avrebbero tentato l’impossibile, ormai si era davanti all’epilogo, ma nessuno aveva il coraggio di pronunciarle, quelle parole... “E’ finita...”.
No, non poteva essere finita e allora avanti col cercare quanti più donatori di sangue e piastrine possibili, avanti con i turni in ospedale a fianco alla mamma, saremo in tanti, sempre presenti.
In uno di quei momenti, drammatici e strazianti, arrivò una telefonata... Era un amico di Marko, un calciatore serbo molto famoso che era andato a trovarlo il giorno del suo compleanno, in ospedale, promettendogli che gli avrebbe presto mandato anche un pallone. Marko aveva conosciuto Deki un pomeriggio di sole, quando andammo a seguirne gli allenamenti e poi nello spogliatoio, a fare foto, a ricevere magliette, a sorridere, felici...
Ma quella volta, sembravano proprio sbagliati tutti i tempi, come dire... No, fermo, Deki, sei in fuorigioco!
Ma il regalo era ormai arrivato al San Camillo, Deki ci avvisava che un suo amico stava lì, fuori dell’ospedale, col compito di consegnare quel regalo, adesso così  assurdo...
Non riuscì ad aggiungere altro.
Andammo, Novka e io, abbracciati verso l’uscita.
Marko era in sala operatoria e non si poteva davvero fare altro che aspettare quelle parole... che nessuno aveva il coraggio di pronunciare. Ma nemmeno si poteva stare a subire passivamente. Così, Novka pregava.
Ad alta voce, ma pregava. Non un dio o, forse anche quello... lei pregava Marko, lo chiamava dal suo cuore, gli diceva di continuare a lottare. Era una litania dolce e discreta, che spezzava il silenzio del dramma, litania sacra, di mamma che non può accettare, dopo tanto lottare, che tutto vada a perdersi così.
Arrivammo all’uscita dell’ospedale, fuori in strada. Giuseppe, l’amico di Deki ci consegnò il regalo per Marko.
In quel momento, presi quel pallone fra le mani e lo guardai... C’era una strana atmosfera, come se proprio in quel momento stesse per iniziare una partita di calcio, fra la vita e la morte...
Un pallone, quel!, Pallone... regalo di vita, simbolo di gioia e gioco, contro quella tragedia che stava per compiersi.
Tornammo in corsia, col Pallone fra le nostre mani.
Da quel momento, come per incanto, poco alla volta Marko si riprese.
Quel Pallone fu l’unica cosa ammessa dalla dottoressa sul comodino durante il trapianto di midollo, che avvenne due mesi dopo. E continuò a starci, ogni volta che Marko ebbe bisogno di tornare per le visite di controllo. Chiuso in valigia, quella del bagaglio a mano, che non si sa mai... il Pallone, quel! Pallone... ci fu sempre.
A ormai quattro anni dal trapianto, Marko, che quest’anno diverrà maggiorenne, tornerà per i controlli.
Il 5 di Febbraio, festeggia un altro compleanno, Marko. Insieme a quel Pallone...
Inconsapevole del tempo ormai prossimo alla fine, in pieno recupero, lanciato in contropiede, il calciatore Serbo ha beffato con un delizioso pallonetto il portiere...
Come fosse il destino di Marko messo davanti la porta della vita, a bloccarla.
Davvero un gran goal, quella volta, Deki!

 

martedì 8 ottobre 2013

Koreni su ovde (le radici sono qui...)

http://www.youtube.com/watch?v=RzgumH7shYY&feature=mfu_in_order&list=UL

Non so perché, in questo buio che circonda, mentre penso a ciò che scriverò di questo viaggio, ho gli occhi umidi…
Mentre ritrovo il calore dei luoghi consueti e ammiccanti, delle quotidiane lotte contro il tempo, che fugge via scontato, ripenso a quelle tende…
A quegli uomini che aspettano…
A quelle famiglie, di notte beffate di giustizia, di giorno illuse di libertà…
A quegli occhi bambini, tenuti lontani con amore, dall’odio…
A quei soldati, trasformati dall’umano contatto, ma pure dall’umana conoscenza, in ex nemici… da complici di un terrorismo finto-indipendentista, etnico-razziatore, delinquente e fascista, svasticheggiante assassino, prezzolato o fanatico che differenza fa, poi ripulito nella ridicola polizia del Kosovo…
Da complici di tutto questo, quei soldati sono diventati deterrente alla violenza e confortevole sicurezza. Per villaggi e monasteri.

Proprio per questo, andranno via, lasciando “giustizia e sicurezza” nelle mani nel neo-Nato-narco-Stato.
Quanta giustizia riceveranno quei volti, così determinati a vivere nella loro terra?
E quale sicurezza potrà rendere, a quegli sguardi, più coraggio di vita?

Fanno paura, tanta determinazione e coraggio!

Fa paura, quel non volersene andare, quel resistere, ad ogni costo, quell’attendere ai propri diritti. Negati, rimandati, posticipati, nascosti, prepotentemente ignorati. E repressi.

Hanno bisogno di stare soli, non vogliono contaminazioni, i monoetnici abitanti del nuovo Kosovo "libero e indipendente"! Libero di cacciare serbi, da sempre in quelle terre, indipendente da nessuno, preda di mafie, malaffare, Usa e basi Nato...

Hanno paura di Rade, anziano signore ormai solo, insieme ai suoi cani, che offre rakija e sorrisi. Amari, ma leali e sinceri…
Hanno paura di suor Isidora, anziana monaca di Gorioć, che aspetta il nuovo giorno legata alla sua fede, che non l’ha mai abbandonata al dubbio…
Hanno paura di Anastasija, piccola principessa nelle braccia, calde e certe, di sua madre…

Si, qualcuno ha paura dei serbi in Kosovo.

Hanno avuto bombe della Nato in appoggio, schieramenti diplomatici, i più imponenti al mondo… potenti lobby americane a sostegno, propaganda globale e soldi, tanti… ma ancora non riescono a liberarsi della presenza dei serbi e dei loro simboli.

Come i monasteri, molti distrutti... a volte più isolati dei villaggi, accerchiati dall’odio rancoroso e villano, in balia e vittime del revisionismo a orologeria, che ne vorrebbe la cancellazione dalla memoria.
Sono tornato a voi.

Quanto siamo simili, cocciuti di ideale, d’una convinzione, di un puntiglio!

Scopro perché amo la vostra esistenza, il vostro orgoglio, la vostra fierezza.
vostro testardo e invincibile fruire del tempo. A voi, a me, il tempo non sconfigge certezza. A voi, a me, il tempo non sconfigge idea. Rimaniamo così, anche soli, se necessario. Ma privi del compromesso, che vuole in cambio l’anima. Siamo simili, ci siamo riconosciuti. Resteremo testardi. E invincibili.
 
http://www.youtube.com/watch?v=RzgumH7shYY&feature=mfu_in_order&list=ULIl

Passero solitario...

Io vado ‘ndo  cazzo me pare.
Fermame co’ le frontiere, se ce riesci. E da magnà me lo trovo da solo, nun me servono ristoranti o bancomat pe’ li sòrdi.
‘Ndo me pare me fermo, annuso, ‘ndo me pare me riposo.

Poi, riparto ma nun metto benzina, ché nun me serve. Solo, un posto sicuro pe’ dormì. Ma tranquilli, me lo trovo da me.

A me, la polizia nun me serve, a me nun chiedono documenti. A me la polizia nun me becca, nun me rinchiude. Mai.

Viaggio, ma nun devo fa affari co’ nessuno, l’intrallazzi nun fanno pe’ me. Viaggio perché libero, me sento così.

E voi, che de tutto questo c’avete bisogno… voi, che me guardate romantici, co’ tenerezza, nun v’accorgete  dell’unica cosa mia che ve manca: la libertà.
Fino a quanno me reggerà la pompa.
Allora, nun ce saranno chirurghi plastici, ortopedici, cardiologi o accanimenti terapeutici. Sarà stato forse un gatto, più giovane e svelto a zompà.
Più de me, che me sarò sentito stanco. De campà.

(Belgrado, quest'anno)

sabato 5 ottobre 2013

“5 ottobre, 2013”

Nato al tempo di vendemmia,
uva che impara a diventare vino,
subito imparasti a fare a meno.
Diventasti così bravo che, quando sarebbe arrivato il più,
non l’avresti riconosciuto.
A forza di fare a meno,
non restò che la tua Ombra
e ti fu pure sufficiente.
Oggi, neppure lei si aggira più fra noi.
E se manca l’Ombra, a mancare è pure il Sole
e, senza Sole, l’uva non matura.
Indicami da che parte sorge,
il Sole,
che a forza di fare a meno,
a forza di farti Ombra,
ti sei scordato di dirmelo…
da che parte stava, il Sole.
Quello che fa maturare l’uva,
quell'uva che impara a diventare vino.

mercoledì 11 settembre 2013

Mi bastava la colla...

Potrei raccontarvi, in questa sera piovosa di settembre, di come Marisa e Maddalena sanno cucinare la pita serba… o di come anche Luana sappia prepararla… e del buon vino che Roberto, pure se non lo vedrai, saprà farti arrivare.
Ma pure, potrei raccontarvi di come ci si possa sentire soli e poi… ecco Michele, i suoi suoni, le sue Silvia, Viola, Veruska, a darti una mano…
E poi le danze, le music
he, la fisarmonica di Gennaro.
E di Adriana, di Domenico e della sua Maddalena. E di Carlo, arrivato da Terni apposta per fare due chiacchiere sulla Serbia e bere insieme una (o forse più…) rakija.
E di quei ragazzini serbi in vacanza, potrei raccontarvi, che stasera non c’erano ma stavano comunque in mezzo a noi… storie di guerra, abbandoni, miseria, povertà e tragedia... di uno di loro che, davanti alla meraviglia di scarpe nuove, si schernisce e dice… "A me bastava della colla per aggiustare quelle vecchie!".
O di una ragazzina che, arrivata a destinazione dopo due giorni di viaggio, vede il mare ed esclama: "Ma quanto è blu, questo mare! E la sabbia, come è lucente… sembra oro!".
Ma potrei pure raccontarvi di una bambina che, tanti anni fa, di fronte alle lacrime della mamma, le dice che no, per ogni lacrima versata, mamma... "dovrai regalarmi un sorriso. E saranno tanti, allora!".
E di quella ragazzina che appena arrivata all’aeroporto piangeva perché sapeva che al mare doveva andarci col costume e lei non ce l’aveva.
Dovrei raccontare di tutto questo.
Ma pure di quel ragazzo d’oro, Narciso e la sua Boccadoro, che pur sconfitto da un compito di matematica, mi spiega la Filosofia. Da Cartesio a Kant, passando per Copernico, Galileo e Giordano Bruno (non il calciatore ma, forse, pure quello, ché il padre ha saputo raccontarglielo…).
Un compito che non vuole pensieri, ma solo che i conti tornino. E quel giorno, i conti non potevano tornare. Magari il giorno dopo si, magari quando lo dico io si, ma non quel giorno, non quando sei tu a volerlo. Non te la do, ‘sta soddisfazione. Sconfiggimi pure, compito che non torni, che tanto, io saprò tornare. Più forte di prima. E farò a meno di te.
Potrei raccontare di tutto ciò.
Ma mi basta dire, invece, che stasera, 10 settembre 2013, alla Casa della Pace siamo stati davvero in pace. Abbiamo mangiato, bevuto, parlato, cantato e ballato. Cucinato con voglia, condiviso con amicizia.
Ah, già, la serata era a sottoscrizione, per raccogliere fondi… ancora non li ho contati. Che importanza ha?

sabato 7 settembre 2013

A 18 anni avevo il cancro dentro casa.

A 18 anni avevo il cancro dentro casa.
Mia madre si sfiniva nel corpo e nello spirito, operazione dopo operazione. Era entrata in ospedale, al "Regina Elena", per una operazione al seno. Ancora la ricordo mentre usciva dal portone e io tornavo con la borsa della spesa fatta. Un saluto al volo e via, che era tardi. Ne uscì dopo 3 mesi, stravolta.

 

Io facevo il quarto liceo, al “Francesco”. Il “Francesco”, era il “Francesco d’Assisi”, oggi lo chiamano solo il “d’Assisi”. Allora era il “Francesco” e io stavo là dentro. C’era la matematica (la scrivo minuscolo perché a noi “pensatori” questa materia fa particolarmente schifo…), c’erano la Storia, la Filosofia, la Geografia, le Lettere e tutto il resto.
 

D’estate andavo a fare il cameriere fra Terracina e il Circeo, un modo per guadagnare qualcosa ma anche per maturare quelle esperienze di vita che, a volte, pure servono.
Una notte, mi alzai alle 4 e feci l’autostop sulla litoranea San Felice Circeo-Terracina. Mi caricò un camion, arrivai a Terracina e presi la corriera. Alle 10 ero a San Giovanni, allora le corriere arrivavano lì. Presi un paio di mezzi e le feci una sorpresa (ma non le dissi dell’autostop…).
Mia madre sorrise, quando mi vide. Fu felice, di vedermi. E io fui felice di averle regalato quella sorpresa.
Si rammaricava perché non riusciva più a pulire casa come un tempo. Io, allora, abituato ai lavori del ristorante, presi secchio, straccio e scopettone e ripulii casa in meno di un’ora. Fu contenta, ma fino a un certo punto. Non è facile vedere un figlio che fa le cose che facevi tu.


 Non ricordo se fu quello il giorno in cui mi insegnò a fare le fettuccine. A stirare sfoglie, asciugarle, tagliarle, condirle e darle in pasto. Ai tuoi cari, ai tuoi amici, ma pure a te stesso.
Lei, già ormai troppo stanca… nel vedermi impacciato e in difficoltà si levò dalla sedia e mi aiutò, con un ultimo sforzo. In un attimo, quell’ammasso di pasta informe e senza senso, divenne sfoglia.
Da allora, non scordai più.
L’impasto va carezzato, con energia ma pure con amore. E la sfoglia si srotola, fino al punto giusto. Che riconoscerai, col tempo. Dovrai sbagliare molte volte ma, alla fine, lo riconoscerai. A 18 anni, avevo il cancro dentro casa.

giovedì 5 settembre 2013

"C'è un bambino che..." anno 2013!


"C'è un bambino che..." è un’iniziativa che nasce nel 2002 e ancora oggi continua, grazie a Un Ponte per… e ai suoi volontari. Bambini che... aspettano. Il mare, la gioia, il divertimento, breve pausa in una vita difficile e pesante.  Vittime degli effetti di una guerra sempre più “permanente”, questi bambini, insieme alle loro famiglie, pagano le conseguenze di bombardamenti sempre più lontani nel tempo ma sempre più presenti in un quotidiano fatto di povertà, disoccupazione, malattie, distruzione dello stato sociale.
Quest’anno sono ospitati due gruppi: uno a Marina di Pisa, con ragazzi e ragazzini provenienti dai villaggi Serbi isolati e ghettizzati del Kosovo e Metohija e uno a Latina Lido, proveniente da Kraljevo, da famiglie profughe o in situazione di grave difficoltà.
I due gruppi andranno al mare, visiteranno Roma, Pisa, Firenze. Tutto dal 4 al 13 settembre.
Per fare questo serve, però, oltre a tanta buona volontà e al lavoro dei nostri volontari, anche il tuo prezioso contributo.
Partecipa alla serata o manda un tuo contributo a Un ponte per…:
Iban: IT52R0501803200000000100790 - Causale: OSPITALITA’ SERBIA 2013

giovedì 29 agosto 2013

post provocatorio... dello stare con Assad!

Io sto con Assad!
Lo so, non è una bella compagnia.
Molti oppositori politici sono stati rinchiusi nelle sue carceri, torturati, ammazzati. E io non posso non ricordarli, non stare dalla loro parte, non piangerli e non esprimere tutta la mia solidarietà. Anche perché molti di loro, la maggioranza, erano e sono comunisti. Ecco perché, spesso, i fascisti si schierano, a loro dire, dalla parte della Siria. Ipocriti. Da sempre funzionali al potere, quello vero e reale, creano confusione per fare basso proselitismo e nascondere il loro vero volto, subdolo e strisciante.

Ma proprio per questo, sono convinto che gli stessi oppositori, ammazzati nelle carceri, non avrebbero voluto che la loro Siria, per la quale hanno tanto lottato, pagando un prezzo inaudito, fosse lasciata allo sbando di una guerra (in)civile e dei bombardamenti, feroci, ai quali la Nato ci ha abituato.
Mi dispiace, ma non si scende a compromessi con la guerra.
Allora c’è solo una cosa da fare: scegliere da che parte stare.
Anche se può risultare controproducente, dalla parte del torto, impopolare, la scelta è d’obbligo. Per chiarezza, per capirci e far capire. Per necessità di comprensione. E allora, io oggi sto con Assad, dalla parte, cioè, di chi è bombardato.
Così come fu con Saddam, con Milošević, con Gheddafi. Non sono così stolto da unirli nel giudizio politico, per carità. Ma il loro ruolo va in ogni caso equiparato, perché dalla parte sbagliata nel momento sbagliato.

Prima di oggi, chi sapeva cosa faceva Assad o come viveva il popolo siriano? Pochi.
Gli stessi martiri del suo regime non avrebbero voluto i milioni di profughi e le migliaia di morti di questi due anni. Non avrebbero voluto, perché sapevano bene che questo apparente interesse da parte di alleanze esterne non è certo mirato alla libertà del popolo siriano, alla giustizia, all’autodeterminazione ma al suo annientamento.

In Iraq, in ex Jugoslavia, in Serbia, In Kosovo e Metohija, in Afghanistan, in Palestina, in Libia… il popolo continua a pagare con malattie terribili le bombe cadute a scopo “umanitario”, a scopo “liberatorio”, allo scopo di “salvaguardare i diritti umani!”. Si salvaguardano così i diritti umani, ad esempio, in Iraq? Quanta gente è morta dopo Saddam? Sarebbe morta con Saddam al potere? No, mi sento proprio di dirlo. No.
E in Libia, da dove ancora partono le zattere dei disperati alla ricerca di futuro, quanto futuro è stato azzerato? A quanta gente? Colpa di Gheddafi? No, mi sento proprio di dirlo. No.
E se non si fosse alimentato in modo spregevole e strumentale la guerra civile in Siria, le migliaia di morti ci sarebbero state? E i milioni di profughi? No, mi sento proprio di dirlo. No!
Della Serbia non dico. Ex Jugoslavia, ormai è così. Il Kosovo in mano ai narcotrafficanti, la Serbia in mano agli speculatori di professione, finti manager di impresa che ti riducono sul lastrico in poche ore. E le persone muoiono come mosche. Regali dei passati bombardamenti, che non si scordano di te anche dopo anni. Tumori, anemie, leucemie, disoccupazione. Ma tutti stanno zitti, che è meglio.
Basta. Inutile continuare.
Inutile continuare a cercare la pace rimanendo schiacciati fra apparenti parti in causa. C’è solo una parte in causa. La folle rincorsa alle risorse e al potere mondiale, che miete vittime senza più ritegno alcuno.
Per tutto questo, volente o nolente io oggi sto con Assad, devo stare con Assad. E col popolo siriano, che morirà sotto i bombardamenti che nessuno saprà fermare. Nemmeno, soprattutto, quando saranno cessati.