mercoledì 3 dicembre 2008

Notizie da Kraljevo...

Cagnolini... al forno
C’è un cane che tutte le mattine viene chiuso dentro un forno.
No, tranquilli, il forno è spento! Sta fuori, in un angolo del portico di ingresso di casa. La nuova, casa, dove la famiglia Ribac, finalmente, è andata a vivere dopo quasi un decennio di soggiorno in un centro collettivo per profughi e sfollati.
Si tratta di un cucciolo di cane, un trovatello. Jelena Ribac, tutte le mattine, lo chiude nel forno prima di andare a scuola. Perché lui, il cagnolino, le è talmente affezionato che le correrebbe dietro fino a scuola. E non si può.
Così, Jelena dice alla nonna, Radmila, di tenerlo chiuso fin quando lei non scompare all’orizzonte. Poi, la nonna potrà riaprire, lasciando il cagnolino in quella insolita cuccia, ad aspettare. Di vederla tornare, per poterle di nuovo correre incontro, felice.
A Kraljevo, ci sono una ragazzina e un cagnolino, felici di essersi conosciuti.

Scacco al quadro
Stavolta l’arrocco è stato efficace.
Muovo le torri tutte verso quel punto preciso. Il re avversario è davvero in difficoltà. Ecco, quella mossa è l’unica che gli rimaneva. Muovo ancora l’alfiere, la torre tiene in scacco il re... ma ecco! Scacco matto! Ho vinto!
Mi alzo e corro nella stanza, gioisco come uno scemo, ma è stata una gran vittoria, la seconda consecutiva a casa Vukovic!
Ho battuto Beba al gioco degli scacchi, dopo aver sconfitto anche Suncica. Sono contento di avervi battute, perché vostra madre, perfida, voleva vedermi sconfitto anche stavolta. Vi dava consigli e muoveva per voi, all’inizio, ma poi aveva altro da fare e così vi ho battute. L’altra volta Jordanka, la mamma, mi aveva ridicolizzato, vincendomi facilmente.
Sono contento. E felice, perché... non si piange più, a casa Vukovic!
Adesso si gioca, si ride, si scherza, ci si prende in giro. Anche se quel quadro, il quadro con quella bambina e le sue lacrime, sta ancora là, appeso.
La prossima volta, me lo voglio giocare a scacchi.
E se vinco, giuro che me lo porto via. Staccato, per sempre, da quella parete.

Furgoni
In questo ristorante dove ci hanno invitati dopo l’incontro col sindaco, ci sono troppe giacche e cravatte, intorno a me.
Troppi personaggi di rampanti memorie, visti e rivisti, salite e tonfi, noie mortali, stesse ambizioni, stessi polsini, stesse agende, stessa supponenza.
Ti offrono ciò che vuoi, tanto non pagano loro. Parole al vento, si inseguono incontro al nulla. Poi, finalmente, l’ora in cui te ne puoi andare. Ed esci.
E proprio fuori, all’uscita, ritrovi il senso del tuo stare lì.
Un furgone parcheggiato... quel!, furgone, guidato per ore e ore, non passavano mai, per migliaia di chilometri, quando tutto era ancora appena accaduto, la Jugoslavia c’era ancora e tutto aveva ancora il sapore della rabbia e dell’ingiustizia, al posto dell’attuale rassegnazione.
Un furgone, ancora in vita per chissà quali scopi, che ormai tutto s’è trasformato. Anche la scritta di lato, che sembra non ricordarci più. Ma lui no, lui, il furgone, sicuro che ricorda ancora. Sta lì, ti guarda, ti fa l'occhiolino. E’ un abbraccio a distanza, discreto, complice, furtivo, fra chi se la intende.
Ciao furgone. Ci incontreremo ancora, da qualche parte, che il viaggio da fare è ancora molto, molto lungo.

Ci salverà il soldato che non la vorrà...?
C’è la neve nel parco di Kraljevo, quello che raggiungi attraversando la ferrovia, prima del campo Rom.
Forse, c’era pure quel giorno di Ottobre del 1941, quando i nazisti sterminarono più di seimila persone, uomini, donne, bambini e anziani.
Blocchi di pietra come tronchi di albero recisi, a ricordo di quelle feroci rappresaglie e di quelle vite spezzate.
Formano recinti come a dire... “Noi ci facciamo ancora compagnia, col calore dei nostri corpi che solo in apparenza si sono raffreddati. Non saremo mai soli, finché gli sguardi dei passanti sapranno ancora fermarsi per noi...”.
Ci sono anche blocchi di pietra che riportano, scolpite, date successive al 1941. Sono gli scampati, i miracolati sopravvissuti fra le cataste macellate dell’invasore. Li hanno commemorati anche loro, se lo meritavano.
Ma, di lato, un po’ in disparte, c’è un altro tronco reciso in pietra. Riporta scolpita la stessa data. Sta lì a memoria di un soldato che si rifiutò di eseguire l’ordine. Fu ammazzato, come traditore.
Forse, avrebbe meritato di starci pure lui, in quei recinti. O, forse, meriterebbe che altri seguissero il suo esempio. E che si formassero recinti nuovi, ma di alberi veri e vivi, piantati da chi obietta, rifiuta, disprezza. La guerra e i suoi ordini da eseguire.
C’è la neve, nel parco di Kraljevo. Forse, come quel giorno di Ottobre del 1941. Ma il calore che sento crescere dentro, quello, questa neve non saprà mai freddarlo. E ce ne sarà sempre, finché lo sguardo del passante saprà ancora fermarsi qui.

Spiriti santi
Quanta neve che ancora resiste, nel parco di Kraljevo.
Il freddo pungente la preserva dal sole, trasformandola in ghiaccio.
Più in là, grida e vociare di bambini che giocano nel fango e in mezzo a neve ormai sporca. Qualcuno ne fa palle, ma è ghiaccio e fa male quando colpisce. Perciò, qualcuno pure piange.
Sono i bambini del campo Rom. Sembrano non curarsi del freddo, ma le loro mani sanno di ghiaccio. E il mocciolo del naso gela.
Non suonano le trombe, questi Rom Serbi. Non hanno fra le mani grancasse e tromboni. Armeggiano fra vecchie auto e ferraglie arrugginite, cartone e rifiuti vari. La neve, quando cade, fa sembrare tutto bello e incantato. Ma dura poco. Qualcuno riconosce il nostro accento, molti di loro sono passati per l’Italia e allora ci salutano e dicono.. “Amico! Guarda...” mostrandoci la desolazione intorno. Un ragazzo mi fa.. “Eh! Come stai?” – “Bene, grazie! E tu?” – Bene! Ciao...”. Ciao, che noi proseguiamo. Andiamo a far visita a una famiglia che non è Rom ma vive lo stesso qui, in una specie di casupola fatiscente, quattro bambini, due caprette, una nonna, un padre e una madre . Manca lo spirito santo... Ci arrangiamo con la rakija, che ci viene offerta insieme al caffè e alla bibita, in grande amicizia e ospitalità, perché li abbiamo degnati della nostra visita. Saremo noi, invece, con l’idea e l’immagine del mondo che ci portiamo appiccicata addosso, abbastanza degni di questa rakija?

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