Mi arrendo.
Ho sempre sostenuto che la Serbia, i Serbi, avessero subito le più grandi ingiustizie in questo secolo e, soprattutto, in quello passato. Ma pure nei secoli precedenti, prestando il fianco, lo so, al vittimismo che da sempre è presentato come caratteristica di questo popolo complicato.
Ho sempre cercato la parola a difesa dei serbi, per ciò che è accaduto nella Jugoslavia degli anni novanta. Ho sempre cercato di dimostrare come i suoi rappresentanti, politici, militari, popolari, avessero grosse attenuanti rispetto a ciò per il quale venivano accusati. Oggi no, basta, mi arrendo. Non spenderò più parole per difendere Milosević, Mladić, il motto Samo Sloga Srbine Spasava (Solo l’Unione Salverà i Serbi!), il festival di Guča, i monasteri del Kosovo e della Metohija, Jelena, Sladjana, Saša e tutto il resto.
No, basta, ve la do vinta.
Ho mia figlia in ospedale, sono davvero in una posizione debole, per cui non cercherò nessun tipo di contrattacco. Ho perso. Gli eventi, del resto, lo dicono. Ho perso, la Serbia ha perso.
La Serbia, che ha arrestato i suoi generali, quelli che il tribunale dell’Aja voleva arrestare, ha perso. Glieli ha consegnati, impacchettati e spediti a domicilio, senza ricevuta di ritorno.
Ho perso, lo so, ho perso come la Serbia con i suoi governanti proni a chiedere di entrare nel grande circo dell’Unione europea, senza garanzie su ciò che sarà il futuro della Serbia stessa e del suo popolo, terreno fertile preda dei vari Marchionne, dei comandanti Nato, del Fondo Monetario Internazionale, delle Banche.
Ripeto, mia figlia è in ospedale e io ho altro per la testa. Altro che la Serbia e le sue sorti! Ho perso.
Però, però, però…
Proprio a voi che avete da sempre accusato questo paese delle peggiori nefandezze.. che avete sempre sostenuto che i mali dei Balcani passassero tutti da Belgrado, la Belgrado dal nazionalismo esacerbato, preda di quel senso di vittimismo che ha portato alla violenza degli ultimi venti anni… proprio a voi che avete portato in giro per il mondo l’immagine della Serbia come terra di coltura del nuovo nazismo, delle pulizie etniche, che siete riusciti a convincere tutto il mondo che proprio da quella terra partiva il male assoluto… a voi, che avete eletto a vostri privilegiati interlocutori gentaglia che vendeva organi umani in cambio di soldi per finanziare il malaffare e lo squallido potere, scambiato per afflato libertario (che scempio delle parole!)… A voi che avete avallato tutto questo, si, proprio a voi, oggi io chiedo…
Come potete tollerare, nel nome del rispetto dei diritti umani, che persone come Zvezdan Arsić, abitante di una casetta in un villaggio serbo, nei pressi di Dečani, dove esiste e resiste un monastero millenario sotto tutela dell’Unesco, oggi patrimonio dell’umanità ma a rischio distruzione… che persone come Zvezdan Arsić, al quale hanno tagliato la fornitura di acqua e non può più annaffiare il proprio orto, che sta rinsecchendo, così come i fiori nei vasi che ci mostra, sconsolato e tenero, senza altre fonti di sostentamento… come potete tollerare che persone così non possano avere un minimo di giustizia?
Tutto intorno alla sua casetta appare povero, abbandonato, rassegnato. Padre Petar, del monastero di Dečani, dove perplessi soldati italiani fanno la guardia, controllando passaporti di amici visitatori, dove assistono alle funzioni religiose di una religione discreta, che non viene a cercarti a casa, una religione che aspetta che sia tu a compiere il primo passo di avvicinamento a Dio, religione che, con un sms, si ferma e prega, per le sorti di una ragazzina lontana che nemmeno conosce… Padre Petar mi mostra, fra il desolato e l’ironico amaro, quelle che erano le case dei serbi, distrutte. Aggiungendo, rassegnato…
“Le case dei serbi nel Kosovo e Metohija (attento padre Petar! Metohija è parola che non si può più pronunciare nel Kosovo “moderno, democratico e liberato!”)… queste case le riconosci perché sono quelle distrutte, che si incontrano nel paesaggio, o sono quelle nuove ricostruite coi ricchi fondi della comunità internazionale, ma con materiali poveri, con mezzi poveri, lentamente e distrattamente e che, una volte ultimate, sono piccole, piccole, piccole…”.
E’ vero. Qualcosa stanno ricostruendo a questi serbi ostinati che non vanno via o che sono tornati. Ma sono architetture minimali. Due stanze, un cesso, un tetto. E basta. Può bastare, deve!, bastare.
Costruite vicino alle vecchie case, andate in rovina, saccheggiate e depredate dagli sciacalli. Case una volta grandi, per famiglie numerose ora costrette a vivere in loculi minimali.
“Quello che eravamo, quello che siamo diventati!”.
Ma alla Serbia occidentalizzata e che vuole l’Europa, tutto questo appare davvero lontano.
Io non ero e non sono d’accordo con voi, ma è un parere ormai davvero poco importante.
Ma voi che avete difeso, a vostro modo di vedere e di dire, i “sacri diritti umani”… che pensate di stare a sostenerli ancora, ieri come oggi, attraverso altre guerre, in Libia come altrove… che siete convinti e ritenete doverose queste guerre che chiamate con nomi sprezzanti del ridicolo, che fate finta di ignorare le enormi quantità di denaro che le stesse guerre richiedono, salvo andare in piazza con scolorite bandiere, nere bianche rosse e verdi, per i tagli alla sanità o alla scuola pubblica… voi che vi commuovete con lacrime da coccodrillo, quando torna un militare morto avvolto da bandiere tricolori, pregne dell’ipocrisia di ministri riformati, simbolo di un Italia senza più memoria, che non ricorda la sua Storia e la sua fierezza… sempre pronti a fare finta di fermare lo spettacolo con minuti di raccoglimento che non contemplate quando a morire sono migliaia di civili inermi e sconosciuti e senza colpa, vittime dei vostri assurdi “effetti collaterali”, sempre pienamente giustificati e sempre, puntualmente, ignorati dai vostri telegiornali… per voi, convinti assertori di tutto ciò, non sono forse “Umani” i diritti di queste persone? E perché, allora, ve ne state in silenzio?
Perché restate in silenzio davanti ai tanti serbi scomparsi, ai quali hanno forzatamente espiantato organi, immessi nel mercato clandestino a finanziare movimenti di liberazione che fanno sfoggio, nel Kosovo “moderno, democratico e liberato”, di bandiere USA da balconi e tetti, quasi fossero le loro? Perché voi, si proprio voi, oggi, non dite nulla?”
Io smetto di scrivere su questi argomenti. Lo giuro, smetto. Tanto più, che mai avrete letto di ciò che vado sostenendo da anni. Ignorato, ignorante, mi rimetto alla vostra conoscenza dei fatti. La giudico oggettiva, buona, assoluta. Ma vi chiedo, da sconfitto… come fate a tollerare tutto quello che, oggi, è la realtà?
Attendo risposta.
mercoledì 27 luglio 2011
martedì 12 luglio 2011
Però, mia figlia deve guarire.
Eccomi in viaggio, in questa Serbia che arresta i propri generali per consegnarli in manette a chi l’ha umiliata, vilipesa, derisa, tradita, ferita, squarciata, offesa con bombardamenti, demonizzazioni, embarghi economici feroci, isolamenti.
Ma vuole l’Europa, questa Serbia, come fosse un dovere, quasi fosse colpa sua se questa Europa è una fregatura.
Entro nel pullman di linea che mi porterà a Kraljevo, da Belgrado. Oggi è caldo, ma il cielo di Belgrado è di un azzurro splendido, brillante, da paesaggio nordico.
Partiamo, il pullman non ha condizionatore e c’è un caldo afoso e inesorabile.
Ma il taciturno autista, non appena fuori dalla stazione, apre la porta anteriore.
Io sto seduto sul primo sedile, proprio vicino alla porta e la cosa mi fa piacere. Viaggiamo così, in barba a ogni regola, Del resto, fa troppo caldo, qualcosa bisogna pure inventarsi.
Agli incroci delle strade vendono cocomeri. E’ stagione. L’autista si accende una sigaretta e getta cenere dal suo finestrino che, puntualmente, rientra da quello dopo. Al casello chiude la portiera. C’è la polizia.
Superato il casello dell’autostrada, però, è di nuovo fresco, è di nuovo aria, è di nuovo ventilazione naturale.
Viaggio in solitudine.
Mi sento bene, la mia testa diviene improvvisamente sgombra, libera, pulita. Un po’ come questo cielo oggi, libero da grigie nubi, pieno di se. Mi riempio dell’essenziale, che oggi è il vuoto.
L’autista ha smesso di fumare ma sposta le cose sul cruscotto che stavano per volare via, guidando con una mano sola, in discesa, sull’autostrada. Nessuno sembra preoccuparsi. Lui sa quello che fa.
Si, sto davvero bene. Il viaggio mi rasserena.
Penso alla prima volta, subito dopo i bombardamenti “umanitari”, quando venivo a scoprire un mondo che non conoscevo. L’autista del pullman fuma molto e, adesso, sputa pure dal finestrino.
Non si fa!, quello dietro è aperto. Ma la cenere è più leggera, la porta il vento. Lo sputo no. Lo sputo pesa. Porta catrame, nicotina, inquinamento, disprezzo. Per una vita che non è più vita.
Salgono passeggeri dove non ci sono fermate, questo è davvero autobus per povera gente. Costa poco, rispetto agli altri. Salgono lavoratori che tornano a casa dopo il lavoro, pure loro avranno da sputare il loro sangue, il loro catrame, il peso di una vita che si fa sempre più dura.
Chiedo al bigliettaio se mi possono far scendere non alla fermata ufficiale ma vicino al mio hotel, che è di strada. Naturalmente non fanno problemi, si può fare. Saluto, mangio qualcosa da solo, vado a dormire, sereno e leggero. Domani sarà Kosovo. Domani sarà pure Metohija, la terra dei monasteri. E’ il nome giusto per quella terra.
A Dečani il sole filtra dalle finestre della chiesa. E’ bello. Ma io accendo un cero, di quelli grandi. Mia figlia non sta bene, me lo hanno detto al telefono. Niente di che, ma dentro sento qualcosa che non va. Allora accendo il cero, chiamo il suo nome. Dentro la chiesa, stavolta, anche io pregherò.
Con padre Petar visito alcune famiglie che verranno sostenute a distanza. Ho bisogno dei loro dati. E il solito rituale si svolge. Si arriva, si stringono mani, si chiedono nomi. Le storie, sembrano sempre le stesse.Ma le persone no, quelle cambiano ogni volta. Prima di conoscere questa nuove famiglie abbiamo consegnato i sostegni a distanza a nove famiglie che avevamo conosciuto a novembre scorso. Alcuni dei loro figli verranno in Italia a Settembre, in una iniziativa di conoscenza e scambio. Petar scatta foto a me e ai bambini. Sono foto belle, vive, piene di amore. Stiamo facendo cose importanti, anche se piccole e minime. Ma di più non riusciamo e questo, in ogni caso, sembra davvero molto, vista la considerazione che c’è per quel che si fa.
A Raušić passiamo vicino alle case distrutte dei serbi. E’ il passato che va a braccetto col presente, fatto di cimiteri ortodossi invasi da sterpaglie, con le lapidi distrutte, in frantumi.
A Djurakovac c’è la chiesa ortodossa anche lei invasa dalle sterpaglie mentre, poco distante, una nuova moschea lucida e bianca e brillante, fa sfoggio di se.
Visitiamo la famiglia di Zvezdan Arsić, una di quelle che andremo a sostenere dalla prossima volta.
Mi colpisce l’aspetto di quest’uomo, malato e gracile, che fa della terra la sua unica fonte di sostentamento.
Solo che, ci dice, da cinque giorni hanno tagliato l’acqua e non può annaffiare il suo orto. Che sta rinsecchendo, così come i fiori nei vasi che Zvezdan ci mostra, sconsolato e tenero. Tutto intorno mi sembra povero, abbandonato, rassegnato. Padre Petar mi mostra, anche se ormai le conosco bene, quelle che erano le case dei serbi: distrutte. Ma mi dice, anche… “Le case dei serbi le riconosci bene perché o sono quelle distrutte che si incontrano nel paesaggio, o sono quelle piccole, piccole…”.
E’ vero. Qualcosa gli hanno ricostruito a questi serbi ostinati che non vanno via o che sono tornati. Ma sono davvero architetture minimali. Due stanze, un cesso, un tetto. E basta. Spesso, costruite vicino alle vecchie case, andate in rovina, saccheggiate e depredate. Quello che eravamo, quello che siamo diventati.
Ma alla Serbia che vuole l’Europa, tutto questo appare davvero lontano.
La notte a Dečani è incantevole, anche se triste e preoccupata. Mia figlia non migliora, la cosa sembra più seria di quello che appariva all’inizio. Dormo col cellulare acceso, in attesa di qualche messaggio rassicurante. Che non arriva.
“Io, io… le metterò da parte le mie idee.
Non starò a ripeterle ancora, come ho fatto in questi dodici anni. No, basta. Mi arrendo. Mi dichiaro sconfitto. Non le rinnegherò, ma nemmeno starò qui ancora a difenderle, come fossi un Don Chishotte dei tempi moderni.
Ve la do vinta, tutto quel che avete sempre affermato e sostenuto, anche con bugie secondo me, sulla Jugoslavia, sulla Serbia, sul Kosovo e Metohija, ve lo riconosco buono. Non mi sentirete più. Mai più. Però…
Però proprio voi, che avete sostenuto che in Kosovo era in atto una pulizia etnica… che andava fermato il dittatore pazzo sanguinario, Milosević… che andavano arrestati i suoi complici, come Mladić… voi che avete affermato ovunque e sempre e con forza che la Serbia andava fermata, perché il suo nazionalismo esasperato stava producendo tragedie, calpestando diritti umani, violando leggi e regole internazionali… voi.. voi… come potete tollerare tutto questo, adesso, in silenzio?
Voi che avete abbracciato, facendo vostre, le motivazioni di interventi considerati umanitari, cosa fate oggi? Dove è la vostra umanità, davanti a persone come Zvezdan?
Io non ero e non sono d’accordo con voi, ma il mio è un parere poco importante. Ma voi che avete difeso, a vostro modo di vedere e di dire, diritti umani, e che pensate di sostenerli ancora, ieri come oggi, non sono forse umani i diritti anche di queste persone? E perché, allora, ve ne state in silenzio?
Perché restate in silenzio davanti ai tanti serbi scomparsi, ai quali hanno forzatamente espiantato organi, immessi nel mercato clandestino per finanziare movimenti di liberazione che fanno sfoggio, nel Kosovo “moderno e liberato”, di bandiere USA da balconi e tetti, quasi fossero le loro? Perché voi, si proprio voi, oggi, non dite nulla?”
A Dečani si incontrano i vescovi di Žiča, monastero vicino Kraljevo, un tempo sede del patriarcato e di Raška e Prizren, quindi della Metohija. Sono Hrisoston e Teodosije.
Nell’omelia Hrisoston esalta il ruolo, fondamentale per i serbi che resistono, dei monaci di Dečani.
Petar deve servire messa, “ho il servizio”, ci dice.
Alla fine saluteremo lui e Isaja, mentre Andrej lo salutiamo per telefono. Speriamo di rivederci presto.
Alla frontiera fra Serbia e Kosovo un poliziotto fa l’occhiolino in modo evidente e spudorato a Vesna, la ragazza della Croce Rossa che ci ha accompagnato, facendo anche da interprete.
Così vanno le cose, così sembrano proprio andare.
Mentre lasciamo Kosovska Mitrovica, sulla strada del ritorno inizia a piovere. Speriamo la pioggia arrivi da Zvezdan, e da quelle famiglie che non hanno acqua per il proprio orto. E speriamo pure che quel cero acceso, mantenga la sua luce a lungo. Mia figlia deve guarire.
Ma vuole l’Europa, questa Serbia, come fosse un dovere, quasi fosse colpa sua se questa Europa è una fregatura.
Entro nel pullman di linea che mi porterà a Kraljevo, da Belgrado. Oggi è caldo, ma il cielo di Belgrado è di un azzurro splendido, brillante, da paesaggio nordico.
Partiamo, il pullman non ha condizionatore e c’è un caldo afoso e inesorabile.
Ma il taciturno autista, non appena fuori dalla stazione, apre la porta anteriore.
Io sto seduto sul primo sedile, proprio vicino alla porta e la cosa mi fa piacere. Viaggiamo così, in barba a ogni regola, Del resto, fa troppo caldo, qualcosa bisogna pure inventarsi.
Agli incroci delle strade vendono cocomeri. E’ stagione. L’autista si accende una sigaretta e getta cenere dal suo finestrino che, puntualmente, rientra da quello dopo. Al casello chiude la portiera. C’è la polizia.
Superato il casello dell’autostrada, però, è di nuovo fresco, è di nuovo aria, è di nuovo ventilazione naturale.
Viaggio in solitudine.
Mi sento bene, la mia testa diviene improvvisamente sgombra, libera, pulita. Un po’ come questo cielo oggi, libero da grigie nubi, pieno di se. Mi riempio dell’essenziale, che oggi è il vuoto.
L’autista ha smesso di fumare ma sposta le cose sul cruscotto che stavano per volare via, guidando con una mano sola, in discesa, sull’autostrada. Nessuno sembra preoccuparsi. Lui sa quello che fa.
Si, sto davvero bene. Il viaggio mi rasserena.
Penso alla prima volta, subito dopo i bombardamenti “umanitari”, quando venivo a scoprire un mondo che non conoscevo. L’autista del pullman fuma molto e, adesso, sputa pure dal finestrino.
Non si fa!, quello dietro è aperto. Ma la cenere è più leggera, la porta il vento. Lo sputo no. Lo sputo pesa. Porta catrame, nicotina, inquinamento, disprezzo. Per una vita che non è più vita.
Salgono passeggeri dove non ci sono fermate, questo è davvero autobus per povera gente. Costa poco, rispetto agli altri. Salgono lavoratori che tornano a casa dopo il lavoro, pure loro avranno da sputare il loro sangue, il loro catrame, il peso di una vita che si fa sempre più dura.
Chiedo al bigliettaio se mi possono far scendere non alla fermata ufficiale ma vicino al mio hotel, che è di strada. Naturalmente non fanno problemi, si può fare. Saluto, mangio qualcosa da solo, vado a dormire, sereno e leggero. Domani sarà Kosovo. Domani sarà pure Metohija, la terra dei monasteri. E’ il nome giusto per quella terra.
A Dečani il sole filtra dalle finestre della chiesa. E’ bello. Ma io accendo un cero, di quelli grandi. Mia figlia non sta bene, me lo hanno detto al telefono. Niente di che, ma dentro sento qualcosa che non va. Allora accendo il cero, chiamo il suo nome. Dentro la chiesa, stavolta, anche io pregherò.
Con padre Petar visito alcune famiglie che verranno sostenute a distanza. Ho bisogno dei loro dati. E il solito rituale si svolge. Si arriva, si stringono mani, si chiedono nomi. Le storie, sembrano sempre le stesse.Ma le persone no, quelle cambiano ogni volta. Prima di conoscere questa nuove famiglie abbiamo consegnato i sostegni a distanza a nove famiglie che avevamo conosciuto a novembre scorso. Alcuni dei loro figli verranno in Italia a Settembre, in una iniziativa di conoscenza e scambio. Petar scatta foto a me e ai bambini. Sono foto belle, vive, piene di amore. Stiamo facendo cose importanti, anche se piccole e minime. Ma di più non riusciamo e questo, in ogni caso, sembra davvero molto, vista la considerazione che c’è per quel che si fa.
A Raušić passiamo vicino alle case distrutte dei serbi. E’ il passato che va a braccetto col presente, fatto di cimiteri ortodossi invasi da sterpaglie, con le lapidi distrutte, in frantumi.
A Djurakovac c’è la chiesa ortodossa anche lei invasa dalle sterpaglie mentre, poco distante, una nuova moschea lucida e bianca e brillante, fa sfoggio di se.
Visitiamo la famiglia di Zvezdan Arsić, una di quelle che andremo a sostenere dalla prossima volta.
Mi colpisce l’aspetto di quest’uomo, malato e gracile, che fa della terra la sua unica fonte di sostentamento.
Solo che, ci dice, da cinque giorni hanno tagliato l’acqua e non può annaffiare il suo orto. Che sta rinsecchendo, così come i fiori nei vasi che Zvezdan ci mostra, sconsolato e tenero. Tutto intorno mi sembra povero, abbandonato, rassegnato. Padre Petar mi mostra, anche se ormai le conosco bene, quelle che erano le case dei serbi: distrutte. Ma mi dice, anche… “Le case dei serbi le riconosci bene perché o sono quelle distrutte che si incontrano nel paesaggio, o sono quelle piccole, piccole…”.
E’ vero. Qualcosa gli hanno ricostruito a questi serbi ostinati che non vanno via o che sono tornati. Ma sono davvero architetture minimali. Due stanze, un cesso, un tetto. E basta. Spesso, costruite vicino alle vecchie case, andate in rovina, saccheggiate e depredate. Quello che eravamo, quello che siamo diventati.
Ma alla Serbia che vuole l’Europa, tutto questo appare davvero lontano.
La notte a Dečani è incantevole, anche se triste e preoccupata. Mia figlia non migliora, la cosa sembra più seria di quello che appariva all’inizio. Dormo col cellulare acceso, in attesa di qualche messaggio rassicurante. Che non arriva.
“Io, io… le metterò da parte le mie idee.
Non starò a ripeterle ancora, come ho fatto in questi dodici anni. No, basta. Mi arrendo. Mi dichiaro sconfitto. Non le rinnegherò, ma nemmeno starò qui ancora a difenderle, come fossi un Don Chishotte dei tempi moderni.
Ve la do vinta, tutto quel che avete sempre affermato e sostenuto, anche con bugie secondo me, sulla Jugoslavia, sulla Serbia, sul Kosovo e Metohija, ve lo riconosco buono. Non mi sentirete più. Mai più. Però…
Però proprio voi, che avete sostenuto che in Kosovo era in atto una pulizia etnica… che andava fermato il dittatore pazzo sanguinario, Milosević… che andavano arrestati i suoi complici, come Mladić… voi che avete affermato ovunque e sempre e con forza che la Serbia andava fermata, perché il suo nazionalismo esasperato stava producendo tragedie, calpestando diritti umani, violando leggi e regole internazionali… voi.. voi… come potete tollerare tutto questo, adesso, in silenzio?
Voi che avete abbracciato, facendo vostre, le motivazioni di interventi considerati umanitari, cosa fate oggi? Dove è la vostra umanità, davanti a persone come Zvezdan?
Io non ero e non sono d’accordo con voi, ma il mio è un parere poco importante. Ma voi che avete difeso, a vostro modo di vedere e di dire, diritti umani, e che pensate di sostenerli ancora, ieri come oggi, non sono forse umani i diritti anche di queste persone? E perché, allora, ve ne state in silenzio?
Perché restate in silenzio davanti ai tanti serbi scomparsi, ai quali hanno forzatamente espiantato organi, immessi nel mercato clandestino per finanziare movimenti di liberazione che fanno sfoggio, nel Kosovo “moderno e liberato”, di bandiere USA da balconi e tetti, quasi fossero le loro? Perché voi, si proprio voi, oggi, non dite nulla?”
A Dečani si incontrano i vescovi di Žiča, monastero vicino Kraljevo, un tempo sede del patriarcato e di Raška e Prizren, quindi della Metohija. Sono Hrisoston e Teodosije.
Nell’omelia Hrisoston esalta il ruolo, fondamentale per i serbi che resistono, dei monaci di Dečani.
Petar deve servire messa, “ho il servizio”, ci dice.
Alla fine saluteremo lui e Isaja, mentre Andrej lo salutiamo per telefono. Speriamo di rivederci presto.
Alla frontiera fra Serbia e Kosovo un poliziotto fa l’occhiolino in modo evidente e spudorato a Vesna, la ragazza della Croce Rossa che ci ha accompagnato, facendo anche da interprete.
Così vanno le cose, così sembrano proprio andare.
Mentre lasciamo Kosovska Mitrovica, sulla strada del ritorno inizia a piovere. Speriamo la pioggia arrivi da Zvezdan, e da quelle famiglie che non hanno acqua per il proprio orto. E speriamo pure che quel cero acceso, mantenga la sua luce a lungo. Mia figlia deve guarire.
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