lunedì 17 maggio 2010

Viaggi nella memoria

Continuiamo con i nostri viaggi nella memoria.
La memoria di un popolo, quello serbo, scippato delle sue tradizioni, della sua cultura, delle sue radici. Ma che resiste, fra mille tentativi di fiaccarla, questa resistenza.
Un viaggio nel Kosovo e Metohija, per me vuol dire sempre un “magone” che prende la gola. Ogni volta, come la prima volta. La tensione è forte nelle mie meravigliose accompagnatrici e interpreti. Ceca (si legge Zezza), 16 anni, Tanja, 18, Beba 13 e Jadranka 19, qualcuna per la prima volta in Kosovo, qualcuna c’è già stata lo scorso anno, qualcun’altra non può ricordarsi. Perché era bambina e fuggiva, a sua insaputa, fra braccia di genitori terrorizzati.
A Dečani, nell’incanto del monastero, dormiamo ospiti dei sempre gentili e accoglienti monaci. Padre Ilarijom fa le veci di Andrej, improvvisamente partito per Belgrado, e di Petar, che pure conosciamo bene, che è a Gračanica.
Dopo la liturgia, ci vengono offerti caffè, rakija e una gradevole cena, con buon vino rosso. Ci sono anche altre persone, che non si fermeranno a dormire. Vengono da Osojane, una vicina frazione e con una di loro, Sonja, ci scambiamo indirizzi e voglia di fare cose. Progettiamo una festa nel suo villaggio.
Prima di dormire chiedo che venga aperto il salone coi ceri della principessa Milica, moglie del leggendario principe Lazar, cavaliere serbo sconfitto nella battaglia del giugno 1389. I ceri, accesi per la prima volta nel 1924, dopo le guerre balcaniche, furono sostituiti con delle copie per opera di Aleksandar Karadjordjević e sua moglie Marija, le cui riproduzioni campeggiano nel salone. I ceri originali vengono conservati altrove, nel monastero. L’anziano padre Avakum, nome che significa amore per Dio, ci racconta volentieri la storia, benevolo e ben disposto verso quelle dolci figure che mi porto dietro. Vederli parlare, in intimità, è qualcosa che ha a che fare con la spiritualità. Io posso solo filmare questo incontro ed esserne testimone. Un anziano pope che conversa amabilmente e in piena sintonia con delle giovani ragazze del suo popolo, in un posto così sacro. E’ la storia che si fa realtà. E’ il ricordo che si tramanda.
All’alba, le ragazze ottengono un appuntamento davvero insolito. Andiamo alla fonte, scortati da un militare armato, a prendere l’acqua della Bistrica. Sarà l’acqua per il giorno, quella da bere. E’ un rito che nel monastero continuano a ripetere da sempre. L’acqua è fresca, leggermente frizzante e la berremo tutti. Dopo aver assistito alla funzione del mattino, partiamo salutando, uno per tutti, padre Silofont che si stacca per un breve momento dalla liturgia per darci ascolto. Alla mia richiesta di pagare per le stanze, mi risponde con un gentile, sorridente, secco… “Certamente no!”.
Alle otto e mezza siamo a Goraždevac, dove è in programma, per il 14 maggio, la festa popolare per il santo protettore Jeremija, la slava del villaggio. Pare che Jeremija lo protegga davvero il villaggio che, dopo i bombardamenti, è comunque rimasto abitato dai serbi. Ma, forse, Jeremija ha trovato collaborazione nella Kfor che, certo, non si aspettava di venire in Kosovo a proteggere coloro che aveva bombardato. Ma tanto è. C’è vita a Goraždevac!
Questa festa religiosa, osteggiata nel dopoguerra dal governo di Tito, è stata trasformata, nel tempo e furbescamente, in una festa legata alla liberazione dal fascismo, così da poter essere comunque festeggiata. Una sorta di compromesso storico tutto jugoslavo.
E’ quanto ci racconta un professore di chimica in pensione che, con la moglie, è venuto apposta per partecipare alla festa e col quale conversiamo in amicizia.
In questo giorno, la processione con l’icona del santo, con la bandiera serba e con il drappo della comunità esce dalla chiesa intorno alla quale farà tre giri, mentre il campanaro suonerà a festa le campane. Poi, si va a rendere omaggio alla vecchia chiesetta del cimitero, quella del XV secolo, restaurata nel 1960 quando venne rifatto il tetto, ma con ancora la struttura originale ben conservata. Il pope celebra la sua breve funzione davanti la vecchia chiesetta che viene aperta al pubblico per l’occasione.
Poi, la processione prosegue per tutto il villaggio dove, nelle case, sono pronti cibi e bevande da offrire al passaggio del corteo. Tavoli imbanditi, alcuni vegetariani nel rispetto delle usanze, altri… meno, aspettano la folla che sfila nelle strade, rendendo omaggio al santo e chiedendo grazia di protezione e buon raccolto, non disdegnando un pezzo di carne o di pesce arrostito o un bicchiere di vino o una rakija.
Le mie splendide interpreti mi aiutano nelle interviste agli anziani che raccontano le loro esperienze e i loro ricordi legati alla festa. Ne ricaviamo tanto materiale da divulgare ma, intanto, anche loro, oltre a divertirsi, scoprono… proprie radici, tradizioni, provenienze. Ecco che, allora, Ceca parla con le persone rovistando fra suoi ricordi legati ai racconti dei nonni e dei genitori. Conversa con gli anziani, che scopre quasi parenti, abitanti di villaggi nei pressi di Kijevo, villaggio di Klina, dove sono nati i nonni, dove sono nati i genitori, dove è nata anche lei. Dove oggi, però, di serbi non ne nascono più perché cacciati e impossibilitati a tornare.
Ecco che, vincendo iniziali titubanze, con Jadranka chiediamo a delle ragazze che siedono su un muretto della chiesa, cosa fanno, come vivono. E loro ci raccontano che stanno abbastanza bene, vanno a scuola ma non escono molto dal villaggio. Ma è meglio di quando sono dovute fuggire in Montenegro, con altri profughi. E’ meglio vivere a Goraždevac, libertà limitata, che come profughi altrove…
Ecco, ancora, che Tanja va in giro per il paese con la sorella Beba, guidata dal cugino Marko Bogicević, 20 anni, che nel 2003 scampò, uscendone “soltanto” ferito, all’assassinio dei due ragazzi serbi che, con lui, facevano il bagno nella Bistrica, il fiume che porta acqua nei numerosi rivoli e fiumiciattoli che attraversano il villaggio.
Proprio in uno di questi rivoli, davanti al mulino, al termine della processione, un ragazzo si immerge simbolicamente nei quattro sensi della croce, ma pure quattro punti cardinali, che riportano alle fasi della luna, del sole e della coltivazione nei campi.
Sveti Jeremija, san Geremia, continuerà a proteggere il villaggio anche per il prossimo anno. Ma ecco che, improvviso, si scatena un allegro e festoso putiferio!
Decine di ragazzi si buttano nelle basse acque scalciando e bagnando chiunque arrivi a tiro. Il liquido si fa presto fanghiglia dove vengono immersi anche malcapitati, occasionali ma comunque ben disposti visitatori. Tutto rimane nell’ambito della allegra festa, senza mai esagerare e ne farà le spese anche la nostra Jadranka che, fatalmente, verrà coinvolta. Attimi di nervosismo fra Marko e un altro ragazzo che avrebbe voluto buttare in acqua anche la nostra Ceca! Ma si sa, i ragazzi, alla fine, finiscono sempre per litigare quando ci sono di mezzo le ragazze!
Tutto torna a posto in un attimo. Jadranka si aiuterà con un paio di rakije bevute alla serba e con delle buste per calzini. Tornerà nella sua casa a Vitanovac, vicino Kraljevo, zuppa ma felice.
Ma a casa di Marko, dove un pochino Jadranka si asciugherà, incontriamo Dragan il padre di Marko, e Miško, lo zio di Tanja e Beba, cognato di Dragan.
Dopo esserci rifocillati e aver conversato, prima di andarcene Dragan ci mostra la foto appesa in camera sua del luogo dove avvenne la tragedia del 2003. Biciclette dei ragazzi a terra, il fiume e la sua luce strana, un senso di vuoto e di morte tutto intorno.
Ci racconta di quei due ragazzi, uno di 12 e l’altro di 19 anni, ammazzati a fucilate. Della vicina, grande piscina gestita, dopo i bombardamenti, da albanesi e di quando, al passaggio del funerale dei ragazzi, la musica venne alzata a tutto volume, in segno di ulteriore sfregio e disprezzo. A un gruppo di italiani che erano a Goraždevac per progetti di riconciliazione, chiesero quale riconciliazione fosse possibile davanti a tutto quell’odio. La loro risposta fu uno sguardo abbassato.
Ma questi italiani erano lì per un mondo migliore, non potevano né volevano prendere le parti di nessuno anche se, a volte, l’equidistanza rischia di fare ancora più danni. Perché non contempla la ricerca della verità. Equidistanti per un mondo migliore, dunque. Che però, adesso, fa a meno dei serbi.
Fa a meno anche di Jugoslav, 17 anni, ammazzato da albanesi nel 1998, insieme a un suo amico. Miško, il padre, ci racconta quei drammatici momenti…
“Sono ricordi pesanti da raccontare… Io glielo dicevo sempre di stare attento, di non allontanarsi troppo, di non restare mai solo, specie se lontano da casa. Erano nei campi, al lavoro. Il suo amico venne colpito da un proiettile che gli trapassò la testa mentre lui venne colpito al fianco destro. Rimase ore e ore così, senza nessuno a soccorrerlo. Io lo so, chi è stato, avrei voluto e potuto ucciderlo, so bene dove abita. La morte di un figlio, ammazzato in quel modo, ti acceca dal dolore. Ma quando ho visto la sua famiglia, i suoi piccoli figli, in quel momento non ce l’ho fatta. E se anche lo facessi oggi, sarebbe la fine per gli altri serbi del villaggio. Chi capirebbe il mio gesto?”.

Neppure la vendetta gli è rimasta, a Miško. Che deve vedere e sopportare nella sua terra, ormai non più dei monasteri, la Metohija, ma di Haradinaj, il criminale “assolto” all’Aja, al tribunale per i crimini nella Jugoslavia… pattuglie di poliziotti kosovari albanesi, in genere ex terroristi dell’Uck, aggirarsi sulle loro auto con i mitra spianati, in mezzo alla pacifica folla in festa. Percorsi della memoria che lasciano il segno!
Lo lasciano nell’animo di Ceca che, traducendo il racconto di Miško, rimane scossa, sfogo di delicato pianto ma pieno di rabbia… di Jadranka, che scopre storie della sua gente prima sconosciute, appropriandosene, finalmente e con tanta voglia di esserci ancora... di Tanja e Beba, che fanno le esperte, essendo questo il loro secondo viaggio in Kosovo, ma già pensano a feste da tenere nel “loro” villaggio, quello di Osojane.
Salutiamo e ce ne torniamo nel pulmino dove ci attende, oltre a Vinko, l’autista, anche Mijo Ratković, col quale andremo a riprendere suo figlio Josif, per la prima volta in Kosovo, che abbiamo lasciato a Belo Polje, dall’anziano zio Radomir, dove un bellissimo e curato orto ci parla il linguaggio della povera gente, onesta e dignitosa vita, vissuta di cose semplici.
Ripassiamo davanti la casa di Mijo, quella depredata e distrutta, a Belo Polje. Ma Mijo neppure si volta più a guardarla, ormai.
Nella rotonda di Peć, intanto, una gigantografia di William Walker campeggia.
Avanguardia della CIA nella destabilizzazione dell’America latina, capo missione OSCE nel ’99 in Jugoslavia (gli osservatori europei, guidati però da questo americano…), colui che diede il via libera ai bombardamenti Nato, responsabile di tanto dolore e tanta ingiustizia nel mondo, è un altro “benemerito” padre della patria kosovara albanese.
Bandiere a stelle e strisce dalle case gli rendono eterno omaggio.

p.s. Entrando nel Kosovo, dopo un po’ arriva sui nostri cellulari un messaggio…
“Welcome to Italy on TIM network!”
La telefonia mobile in Kosovo è stata tagliata ai serbi. Le schede serbe, quindi, funzionano come se si chiamasse dall’estero. Radomir, l’anziano zio di Mijo che vive nel villaggio di Belo Polje, se vuole chiamare i suoi figli in Serbia, paga come se dovesse chiamare Bill Clinton in USA. Ma a lui interessano solo i suoi figli, per sentirli meno distanti. E sentirsi, meno distante.
Invece no, testardo che è, non lo ha ancora capito che il Kosovo è uno stato indipendente e libero. Da quelli come lui, da quelli come i suoi figli, da quelli come la sua anziana, malata moglie. E se vuole pagare meno, cioè come prima, cosa per lui fondamentale vista la precaria situazione economica che vive, non gli servirà cambiare scheda e metterne una kosovara albanese. Pagherebbe allo stesso modo. Tanto.
No, dovrebbe solo andarsene. Lui e gli altri serbi dei villaggi. Per sempre. Intanto, però, pagherà e molto una telefonata alla figlia. Particolare interessante, la tariffa la paga alla TIM Italia, che gestisce le linee in roaming, credo si dica e si scriva così.
Alla faccia della protezione delle minoranze.

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