giovedì 10 febbraio 2011

Villaggi turistici

Depliant con la pubblicità di villaggi turistici si preparano a invadere le nostre illusioni di riposo.
Ma esistono villaggi, dove il turismo proprio non passa, dove ti rechi solo se hai interessi particolari che, solitamente, non coincidono con quelli di moda nel nostro mondo. In questi villaggi non si va per rilassarsi o per turismo, di qualunque genere. Eppure, si riesce a sorridere.
Sono i villaggi serbi del Kosovo, quelli rimasti dopo la cacciata dei suoi abitanti, almeno la gran parte, nel giugno del 99, dopo i bombardamenti della Nato sulla Jugoslavia. Sono quelli rimasti deserti dopo l’ennesima pulizia etnica contro i serbi, nel marzo del 2004. Oggi, in molti di questi villaggi non vive più nemmeno un serbo. Memoria cancellata, azzerata, anche nelle parole della giovane Svetlana Rakić, che ricorda il suo ritorno in Kosovo, alla conoscenza delle proprie radici, quando non poté rivedere Kjevo, villaggio vicino Istok, perché troppo pericoloso per i serbi anche il solo passarci.
Ma ci sono villaggi come Opraške, Šaljnovica, Koš, Osojane, Brestovik, Goraždevac, Muševine, Sinaje, Belo Polje, dove molti serbi sono rimasti, nonostante tutto o sono tornati, sempre nonostante tutto. E dove stanno cercando di tornare (vedi: http://www.youtube.com/watch?v=9bZMukZpIgA&feature=related).
Queste famiglie vivono in prigioni a cielo aperto. A Koš, vicino Osojane, nel comprensorio di Peć, Radovan Popović guida il pulmino in dotazione al villaggio, donato dal governo norvegese ai monaci del monastero di Dečani e da questi consegnato al villaggio per gli usi comuni, come i bambini da portare a scuola, gli anziani o i malati da portare nei centri sanitari più vicini, la spesa quotidiana. Radovan ci racconta di vite solo apparentemente tranquille, con le tante ingiustizie con le quali convivere, loro malgrado, giorno dopo giorno. La mancanza di legalità non permette loro neppure un minimo di giustizia. Subiscono spesso furti notturni di bestiame o di attrezzature agricole. Ma non possono difendersi, perché ne avrebbero problemi ancora più grandi a conseguenza. La polizia del Kosovo, formata in gran parte da reduci dell’ex formazione terroristica dell’Uck, definita tale dagli Usa e dalla Nato nei primi anni della sua apparizione (ma poi sdoganata come formazione legittimata a combattere per il Kosovo “libero e indipendente”, i cui capi sono oggi al potere ma pure inquisiti per traffico di organi umani e altre attività che davvero poco hanno a che vedere con afflati libertari…), quella polizia non è davvero al di sopra delle parti, né sensibile alle richieste di legalità dei serbi. Capita così, come mi è successo di assistere durante la festa del 14 maggio a Goraždevac, di veder passare fra la pacifica folla di serbi che rendevano omaggio al santo Geremia, un auto con a bordo poliziotti col mitra spianato, dal fare provocatorio e sprezzante.
E continue sono le aggressioni di serbi rimaste impunite, tutte a scoraggiare il loro rientro nelle proprie terre.
Petko Miletić, del villaggio di Opraške, tornato in Kosovo dopo anni di vita da profugo con una moglie e due bambini piccoli, famiglia sostenuta dal progetto di sostegno a distanza avviato da Un Ponte per… in favore di famiglie serbe dei villaggi del Kosovo (vedi: http://www.unponteper.it/cosafacciamo/schedaprogetto.php?sid=16&thold=0) ci racconta della sua casa bruciata nel pogrom del marzo del 2004 e del sogno che fece anni dopo, quando una notte sognò la sua stalla che bruciava. Tornato, trovò la nuova casa costruita per la sua famiglia, con fondi che la comunità internazionale destina per il rientro dei profughi, proprio sul terreno dove prima sorgeva la stalla.
Intorno alla nuova casa, come in un paesaggio spettrale, altre costruzioni bruciate o depredate di tutto, testimoniano la pulizia etnica subita. Petko lavora la terra, aiutato da sua moglie. Tutti i loro sforzi servono a far crescere al meglio i propri due figli, Tamara, di sei anni e Lazar, di cinque. Petko, mi regala in amicizia una bottiglia di rakija fatta da lui. Ogni tanto, con gli amici ne bevo un sorso. Mi serve a ricordare che Petko e la sua famiglia esistono davvero. Così come esistono, al mondo, tanti desideri di vita quotidiana, da ricostruire in pace e serenità. Non voltiamo la faccia.

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